LE VITTORIE E I RISCHI DELLE RIVOLUZIONI ARABE

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In ogni caso voglio riaffermare qui che ai miei occhi nulla è più importante di quest’operazione, che ha coniugato l’eroismo delle forze ribelli e l’abilità  strategica di quelle della Nato. Il suo successo ci rasserena, dato che alcune scommesse assai rischiose sono state vinte. Innanzitutto, quella di evitare di ritrovarsi «impantanati», come nei casi già  descritti da generali francesi e americani. In secondo luogo, il rischio di manifestazioni della «piazza araba» contro un intervento franco-britannico che avrebbe potuto rammentare la deplorevole spedizione di Suez a fianco di Israele nel 1956.
L’ultima scommessa infine era quella di evitare che un relativo insuccesso, o una soluzione di compromesso con il dittatore libico andassero ad aggiungersi alle difficoltà  incontrate dai rivoluzionari egiziani e tunisini, frenando quella febbre giustizialista che ha fatto cadere ad uno ad uno i tiranni. Nulla è trascurabile in questi tre successi, ai quali non è estraneo Nicolas Sarkozy; e a Martine Aubry va riconosciuto il civismo dimostrato nel dargliene atto.
Si dà  il caso che la sera in cui tutto è precipitato in Libia mi trovavo nella vicina Tunisia. Nulla di quanto accade in uno di questi due Paesi può essere indifferente all’altro – tanto che ai tempi di Bourguiba (1973-74) si era anche prospettata la loro fusione. La vittoria dei libici è una festa comune. I tunisini sono fierissimi di sentirsi dire che quell’evento, lo hanno anticipato e forse provocato; e per di più ricordano che quanto a loro, non hanno avuto bisogno di un esercito straniero per cacciare il despota. L’eroe della vittoria è stato il capo delle forze armate tunisine, il generale Rachid Ammar, che ha rifiutato di far fuoco sul suo popolo. Peraltro la stessa cosa è accaduta in Egitto – mentre in Libia un caligolesco tiranno da farsa ha incominciato col minacciare lo sterminio dei ribelli di Bengasi. Non possiamo dimenticare che solo l’intervento dell’aviazione occidentale ha evitato quel massacro. Va detto infine che ovviamente i tunisini preferiscono far emigrare i loro operai in un Paese vicino e ricco, anziché vedersi costretti ad accogliere decine di migliaia di esiliati privi di risorse.
Quali sono, al momento, le differenze tra Tunisi e Tripoli? La prima, che salta agli occhi dei più attenti tra i miei amici, è la visibilità  delle donne in Tunisia, mentre in Libia sono nascoste. Se nel primo Paese non si fa nulla senza di loro, nel secondo è vero il contrario. L’ideale democratico è indubbiamente affermato nelle risoluzioni iniziali delle due rivoluzioni, ma in Libia lo è in maniera restrittiva per le donne.
Seconda differenza: se la presenza degli islamisti (fratelli musulmani e salafisti) è forte in entrambi i Paesi, a Tripoli questi gruppi non sono oggetto della riprovazione che suscitano in buona parte dei tunisini. In ogni caso, in Libia la situazione è assai più pericolosa che in Tunisia o in Egitto; di fatto, qui tutti sono in possesso di armi, e c’è chi è ben deciso a farne uso nei conflitti etnici, regionali o tribali. Quest’ultima affermazione va però rivista alla luce del giudizio dato dalle delegazioni straniere sulla determinazione e competenza dei responsabili del Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt).
Torniamo ora ai dibattiti che hanno preceduto l’intervento francese. Si trattava di chiarire se quest’intervento fosse disinteressato, o se invece, col pretesto di salvare gli insorti di Bengasi, l’intenzione non fosse quella di sedurre i futuri elettori e di servire gli interessi più egoistici, soprattutto in campo petrolifero. Intervenire ovunque non equivale a dar prova di quell’arroganza occidentale che ha sempre cercato di imporre la democrazia con la guerra, nei Paesi colonizzati così come recentemente in Afghanistan e in Iraq? Gli algerini lo pensano, e non sono i soli.
Per quanto mi riguarda, non ho mai sottovalutato gli argomenti di chi propugna queste tesi. Pur sostenendo il «dovere d’assistenza», ho sempre rifiutato il preteso «diritto di ingerenza». La violazione della sovranità  di un Paese, per quanto possa comportarsi male, espone la comunità  internazionale a un rischio enorme. Ma a questo si deve subito rispondere che i libici hanno chiesto espressamente l’assistenza di potenze straniere. E che da alcuni Paesi arabi hanno purtroppo ottenuto solo qualche aiuto timoroso e distante. D’altra parte, non si insisterà  mai abbastanza nel sottolineare che oggi, nei Paesi arabi, è una nuova generazione a richiamare in vita la democrazia da un passato lontano, rivendicando, pur senza rinnegare l’islam, una concezione occidentale della libertà . E in questo caso, è in nome dei valori occidentali che questi musulmani accolgono l’aiuto dell’Occidente.
Per il momento, l’abituale slogan mobilitante contro l’imperialismo americano o l’«entità  sionista» (Israele) non ha suscitato un’eco popolare. Lunedì scorso gli estremisti egiziani, che aspettavano un milione di contestatori contro i «crimini di Israele», sono riusciti a radunare a malapena un migliaio di manifestanti. Ma ciò non esclude affatto che il conflitto con Israele complichi i rapporti tra l’esercito egiziano e i suoi grandi protettori americani.
Resta il fatto che ciascun Paese arabo, e in particolare magrebino, ha la sua propria storia, le sue tradizioni e le sue singolarità ; e sarebbe un terribile errore ritenere che l’operazione libica possa servire da riferimento, da precedente o da esempio. E che in qualunque altro Paese sia possibile vincere quelle scommesse che la fortuna ci ha impedito in perdere in Libia.
Traduzione di Elisabetta Horvat


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