Insorti a caccia di neri per le strade di Tripoli

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Tutti i fermati hanno una caratteristica comune: la pelle nera. L’accusa che viene loro mossa è gravissima: avere combattuto come mercenari al soldo di Gheddafi. «Ne abbiamo presi 200 solo ieri», sottolinea il capitano Salem Eisaleh, responsabile del comando militare dell’area. «Saranno interrogati. Verrà  fatto un processo». Fuori dal comando stazionano diverse donne. Sono parenti degli arrestati: mogli, figlie, sorelle. Assicurano che i loro familiari non c’entrano niente con la guerra. Non hanno mai combattuto. Sono lavoratori. «Io sono libica. Vengo da Bengasi. Mi hanno arrestato due fratelli», grida Aziza, una ragazza nera col foulard e un largo sorriso.
«Ma quali libici? Gli arrestati sono tutti stranieri: ghanesi, ciadiani, maliani», le fa eco il capitano Eisaleh. Che, al di là  della garanzia che gli imputati saranno sottoposti a un processo, fa ben capire come la pensa: «La maggior parte di loro sono colpevoli. Sono mercenari che combattevano ad Abu Salim (l’ultima roccaforte di Gheddafi a cadere in città  ndr). Si sono travestiti da civili e si sono rifugiati nella medina. Ma li staneremo».
Le retate cominciate l’altra notte sono solo l’inizio di un’operazione che si prevede di più vasta portata. «Ci sono almeno altri 500 mercenari nella città  vecchia», assicura il capitano. «Se dagli interrogatori degli arrestati emerge qualche elemento che ci permetterà  di prenderli, andremo nelle loro case. Altrimenti ci vorrà  l’intervento delle forze speciali».
La situazione in città  per gli africani è a dir poco critica. Prima della guerra, la Libia contava una popolazione immigrata dall’Africa sub-sahariana di più di un milione di persone, impegnate soprattutto in quei lavori di fatica che i libici non facevano. Oggi molti sono fuggiti. Quelli rimasti sono guardati con estremo sospetto dai ribelli che hanno preso il controllo della città . Sono quasi automaticamente considerati ex mercenari dai combattenti, che oggi danno sfogo senza problemi a un razzismo neanche tanto velato. «Anche se alcuni hanno la nazionalità  libica, non sono libici. Sono magari persone naturalizzate dal regime in passato. Gheddafi voleva cancellare le radici della Libia. Noi siamo un popolo mediterraneo», sottolinea il capitano Eisaleh, facendo capire che non ci sarà  grande spazio per gli africani nella Libia di domani. «Anche i cosiddetti libici del sud non sono libici. Stanno con Gheddafi, sono africani», aggiunge un combattente nel cortile, riferendosi alle popolazioni della zona sahariana del paese.
Il risultato è che oggi molti africani a Tripoli vivono nel terrore. Secondo l’organizzazione Medici senza frontiere (Msf) «una comunità  di circa 1000 rifugiati e migranti vive all’interno e nei pressi di alcune imbarcazioni presenti in una base militare abbandonata a Tripoli, mentre un altro gruppo di 200 persone ha trovato rifugio in una fattoria da quando sono scoppiati i combattimenti nella zona sud di Tripoli». Molti gruppi più piccoli sono segnalati in giro per tutta la città : immigrati che rimangono chiusi in casa, senza uscire, per timore di essere arrestati o fatti oggetto di violenza.
Mebrahato Michael è uno di questi. Se ne sta barricato in quello che è una specie di rifugio a Shara Ashra, sobborgo alla periferia sud-ovest di Tripoli. Vive insieme a dodici compagni, tutti eritrei come lui. Stanno in questa abitazione di fortuna – due stanze che si aprono su una terrazza battuta dal sole – da quando sono arrivati nella capitale in provenienza da Sebha, la città  sahariana ancora controllata dai lealisti, dove lavoravano da più di due anni. Lo stesso trasferimento dal sud è stato un’esperienza traumatica. «Durante il tragitto, due di noi sono stati colpiti da pallottole vaganti e sono morti», racconta Brhane Meldemariam, che ha perso il fratello nel tragitto.
Da due settimane, quando i superstiti del viaggio sono arrivati nella capitale allora in preda ai combattimenti, si sono stabiliti su questa terrazza, dove già  viveva un loro amico. Passano le proprie giornate lì, aspettando la sera, senza poter far nulla. «Abbiamo paura di essere scambiati per soldati di Gheddafi. Temiamo per la nostra vita», racconta Mebrahato con il tono di voce rotto dalla preoccupazione. Fuggiti dalla guerra a Sebha, si ritrovano ora intrappolati in casa. Sono tagliati fuori dal mondo. Non sanno cosa succede fuori. «Sentiamo solo rumori di spari. Chi controlla la città ?», chiedono tutti insieme. Non sanno nulla degli arresti che si stanno compiendo nella medina. Sanno solo che è meglio non uscire, meglio non avventurarsi in una città  che non conoscono e che non sembra molto ospitale.
I tredici vivono della solidarietà  di alcuni vicini del quartiere, che ogni tanto portano loro cibo, acqua, un po’ d’olio. «Alcuni sono buoni, soprattutto adesso che c’è l’aid el fitr (la festa che segna la fine del ramadan ndr). Ma solo ieri sono venuti due uomini armati e ci hanno detto di non uscire, perché potrebbe essere pericoloso per noi», aggiunge Mebrahato.
Per i tredici eritrei è consigliabile seguire l’indicazione dei «due uomini armati». Nei prossimi giorni presumibilmente le retate continueranno ed è meglio non finirci in mezzo. «Agli africani che sono semplici lavoratori non verrà  torto un capello. Saranno lasciati liberi di tornare nelle proprie case», assicura il capitano Eisaleh dal suo posto di comando. Ma una cosa è certa: di questi tempi a Tripoli è meglio non farsi vedere troppo in giro se hai la pelle un po’ scura.


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