“Un diritto uccidere Gheddafi” No dei ribelli alla missione di pace
TRIPOLI – La Libia farà da sola: non c’è bisogno di una missione militare internazionale. Il “no” categorico è stato affidato all’inviato delle Nazioni unite, Ian Martin, dai vertici del Consiglio nazionale di transizione. Non c’è nessun bisogno di appoggio esterno, ha detto alla Bbc il rappresentante libico all’Onu Ibrahim Dabbashi, perché «non è una guerra civile, né lo scontro fra due fazioni: è il popolo che si difende dalla dittatura».
Passata in sostanziale tranquillità la prima giornata di festa dell’Eid el-Fitr, che celebra la fine del mese sacro del Ramadan, è il momento di cominciare a pianificare la Libia di domani. Secondo Martin, per l’Onu la sfida maggiore sarà l’organizzazione di future elezioni democratiche: «Dobbiamo tenere ben presente che non c’è nessuna “memoria vivente” di elezioni nel paese, né c’è una macchina elettorale, o una commissione elettorale, non c’è nemmeno una storia di partiti politici o una società civile indipendente, o media indipendenti. Sono tutte cose che nascono solo ora».
Che nonostante la fuga del dittatore per il vecchio regime sia ormai game over, come scrivono sui muri i monelli di Tripoli, cioè che la lotta sia ormai al termine lo dimostrerebbe anche la prima defezione del clan Gheddafi: è il figlio Saadi, fuggito dalla capitale in tutta fretta lasciando persino senza custodia i suoi amati leoni “adottati” nello zoo della capitale. Saadi avrebbe già offerto di consegnarsi ai ribelli, pur di non lasciare la Libia. Anche se, in serata, la Cnn ha dato notizia di una e-mail nella quale il terzo degli otto figli del raìs smentirebbe la trattativa: «Siccome i ribelli non vogliono negoziare, non andrò da loro per arrendermi».
Mentre Saadi tratta, il fratello Seif minaccia: «Vi parlo dalla periferia di Tripoli, la resistenza continua. A Sirte 20 mila uomini armati sono pronti a combattere» ha detto in un messaggio diffuso alla tv. Per Saadi la strada della clemenza potrebbe non essere difficile: al contrario di Seif al Islam e degli altri due fratelli Hannibal e Kahmis, l’ex calciatore non dovrebbe essere al centro di odi particolari. Su Seif al-Islam pende un mandato di cattura internazionale e gli altri due, considerati sadici se non psicopatici, sanno di rischiare grosso se presi vivi. Di Saadi la popolazione libica ricorda le ambizioni sportive e la passione per il lusso, auto sportive e belle donne: poco, per temere esecuzioni sommarie.
Diversa sarebbe la sorte del padre Muammar, nascosto forse, insieme con Saadi e Seif, a Bani Walid, poco lontano dalla capitale: «Se è ancora in Libia e non si arrende, è nostro diritto ucciderlo», dicono al Cnt. Ma per il portavoce Moussa Ibrahim, le offerte di pace vanno rifiutate: «Nessuno con un po’ di onore accetterebbe le proposte di un gruppo armato», ha detto il rappresentante del raìs. E complicata potrebbe essere anche la sorte di Nagi Ahrir, comandante delle guardie personali di Gheddafi, catturato il 23 agosto dagli insorti (la notizia è stata diffusa solo ieri) mentre cercava di fuggire in Tunisia con una robusta quantità di denaro e un passaporto diplomatico. Ahrir ha detto a chi lo interrogava di non sapere niente del nascondiglio di Gheddafi, ma il suo interrogatorio va avanti. Ieri sera è finito in carcere anche il ministro degli Esteri di Gheddafi Abdul Ati Al Obeidi.
Un altro segno della progressiva normalizzazione è l’avvio dell’attività diplomatica ufficiale: oggi, comunica il ministro degli Esteri Franco Frattini, riapre l’ambasciata italiana, chiusa in tutta fretta e devastata dai gheddafiani dopo l’adesione dell’Italia all’alleanza che sostiene il Consiglio dei ribelli.
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