Il fantasma del dittatore che spegne i sorrisi di Tripoli

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TRIPOLI. È un’ossessione. Un incubo che guasta la festa: quella di oggi, solenne, dell’Aid el Fitr, che celebra la fine del digiuno del Ramadan, e che dovrebbe essere anche quella della liberazione. Una liberazione incompleta poiché resta sempre in sospeso una domanda per molti angosciante: dov’è Gheddafi?
L’interrogativo avvelena gli animi. Provoca smorfie. Spegne i sorrisi. Ha ragione Mustafa Abd el Jalil quando dice che la Libia sarà  liberata del tutto soltanto quando il raìs in fuga sarà  acciuffato. Vivo o morto. Solo allora uscirà  dalle menti. Jalil è oggi il presidente del Consiglio nazionale di transizione, ma fino a sei mesi fa era ministro della giustizia di Gheddafi. Lo conosce dunque bene, di persona, e quando ne parla è come se evocasse un fantasma sul punto di comparire, da un momento all’altro, in carne ed ossa. Un dittatore pazzo ormai senza potere, è tentato di dire. Ma pensa piuttosto a qualcuno di diabolico, pronto a tramare l’imprevedibile. Insomma una minaccia, non solo psicologica.
Come la stragrande maggioranza dei libici Jalil è cresciuto con la sua immagine sotto gli occhi. I suoi ritratti erano dappertutto, per quasi mezzo secolo. Si sono stampati nelle memorie. Nelle scuole, negli uffici, per le strade, sulle piazze, il suo sguardo, col passare degli anni sempre più protetto da occhiali scuri, ti seguiva ovunque. «Ed è rimasto qui», dice un attempato miliziano di guardia all’Hotel Al Waddan, appoggiando l’indice alla fronte. Per estirparlo dai cervelli, dove si è radicato per quarantadue anni, bisogna cancellare quello sguardo. Dunque catturare Gheddafi. Morto o vivo non importa. Basta che lo si sappia inoffensivo. La taglia si aggira su un milione e mezzo di dollari e l’impunità  è garantita a chi lo tradirà .
A questo punto George Orwell, grande ritrattista di despoti, è di rigore. In un romanzo (Coming up for air) descrive le sfilate di manifesti con facce gigantesche e la folla di un milione di persone che acclama l’immagine del leader, pur detestandolo fino alla nausea. Due mesi fa, qui a Tripoli, sulla Piazza Verde (oggi dei martiri) ho assistito al delirio di decine di migliaia di persone davanti al ritratto di Gheddafi appeso a un balcone, mentre la sua voce, lui invisibile, usciva dagli altoparlanti. Mancava poco alla fine del suo potere, ma non lo sapevamo. Il raìs non si mostrava più in pubblico. Non osava. Aveva paura di un attentato. Forse era già  lontano da Tripoli. Si udivano puntualmente soltanto i suoi discorsi, che pronunciava al telefono. Era già  un fantasma, ma noi lo ignoravamo. Adesso il grande ritratto che dominava la piazza spunta da una montagna di immondizie sul lungomare. Ed ogni volta che ci passo davanti chiedo al libico che mi accompagna dove pensi che si nasconda. La risposta è sempre la stessa: sottoterra. In un tunnel. In una buca. In un labirinto segreto. Molti libici lo vedono nelle viscere della città . Rannicchiato in una fogna. L’odio della folla in questi giorni si sfoga. Un odio sepolto, comunque a lungo inesprimibile, in chi l’acclamava ancora due mesi fa sulla piazza Verde. Alcuni battono i piedi, come se calpestassero qualcosa o qualcuno, quando rivolgo la solita domanda. Dove sarà ? E loro fanno come se lo schiacciassero con i tacchi.
Anche se non sottoterra, Muammar Gheddafi potrebbe essere nascosto a Tripoli, dove non mancano i fedelissimi della sua tribù. Potrebbe tuttavia avere raggiunto Bani Walid, a Ovest, una zona centrale, o Sabha, nel Sud, o Sirte, sua provincia natale. Là , in quelle tre aree, i suoi resistono. Se li ha raggiunti potrebbe avere l’occasione di battersi come chiede la tradizione tribale. Ma tanti sono i luoghi dove può avere organizzato un rifugio confortevole e segreto. Le montagne e i deserti della Libia sono generosi con chi deve darsi alla macchia. A un raìs megalomane, vanitoso e non privo d’audacia, non si addice tuttavia un comportamento da talpa o da lepre.
Un esperto della materia, autore di un libro sulle più celebri cacce all’uomo, da Geronimo a Bin Laden, sostiene che più di tutto conta il “terreno umano”. Nel suo libro (Wanted Dead or Alive) Benjamin Runkle sostiene che deserti e montagne possono essere buoni nascondigli, ma che sono gli uomini a proteggere o a tradire il fuggitivo. Un personaggio come Gheddafi ha seminato odio e denaro nei lunghi decenni di potere. Quando disporrà  di meno denaro, e l’odio non più contenuto dalla paura susciterà  denunce e diserzioni, il raìs cadrà  in trappola. O perderà  la vita. Per Benjamin Runkle serviranno a poco gli uomini dell’intelligence e i Droni promessi da Liam Fox, ministro britannico della difesa, ai libici partiti alla caccia di Gheddafi. Né serviranno quelli offerti da Nicolas Sarkozy.
Non pochi uomini della Brigata Tripoli sono già  partiti per raggiungere la provincia della Sirte, la più importante e significativa delle tre aree rimaste in mano a quelli che fino a pochi giorni fa erano i governativi, e che adesso rappresentano i resti di un regime in decomposizione. Là  potrebbe trovarsi Gheddafi. È la sua terra natale e molti suoi sostenitori, appartenenti alla sua stessa tribù, si sono radunati in quella località . È a Sirte che si svolgerà  la battaglia finale? Il dubbio sussiste. Potrebbe trattarsi di una falsa pista. Inoltre da giorni sono in corso fitte trattative con i clan della zona, ritenuti fino a ieri tradizionali amici del raìs, ma adesso sempre più inclini ad accettare una realtà  che l’ha ormai messo fuori gioco. Il più importante di quei clan è il Farjan, che, con i suoi alleati Hamanlah ed altre famiglie della Sirte, ha partecipato alla guerra civile a fianco di Gheddafi, rispettando una vecchia solidarietà  tribale. Da Bengasi, Mustafa Abd el Jalil ha lanciato un ultimatum: entro sabato i gheddafisti (a Bani Walid, a Sabha e a Sirte) devono venire a patti con il Consiglio nazionale di transizione. Ma nessun compromesso è possibile con la persona di Gheddafi e con i figli sopravvissuti. A partire da sabato comincerà  l’azione militare.
A dirigerla potrebbe essere Abd al-Hakim Belhaj. Il quale comandava la Brigata Tripoli, addestrata anche da uomini della Cia sulle montagne occidentali, e che adesso è alla testa del Consiglio militare della capitale. Abd al-Hakim Belhaj era conosciuto un tempo nel mondo dei jihadisti come “Abu Abdullah al-Sadiq”. Belhaj viene infatti da lontano. Il suo itinerario militare e politico è zigzagante. Nessuno mette tuttavia in discussione le sue capacità  di comando. E’ lui che ha guidato la brigata che per prima è entrata a Tripoli, ed è sempre lui che ha conquistato Bab al Aziziya, la residenza-labirinto di Gheddafi.
Prima di questa esperienza, Belhaj, un uomo di quarantacinque anni, è stato il responsabile del Gruppo islamico di combattimento libico, un’organizzazione jihadista storicamente legate ad Al Qaeda, ai Taliban e ai movimenti egiziani islamisti più radicali. In quella veste è stato in Afghanistan e in Iraq, dove ha combattuto a fianco di Zarkawi, il capo dell’Al Qaeda irachena, ucciso dagli americani. Belhaj ha conosciuto prigioni e agitati rapporti con le intelligence occidentali. Col regime di Gheddafi non sono mancati gli scontri, ed è tramite Saif al-Islam, il figlio del raìs, che Belhaj è passato dal carcere a posizioni privilegiate. Ha partecipato al “pentimento degli eretici”, redigendo con altri jihadisti un lungo documento di autocritica. Ma l’autocritica è andata oltre, ha preso una svolta da vera conversione, poiché il duro jihadista è diventato uno dei protagonisti della rivoluzione contro la dittatura di Gheddafi. E i responsabili delle varie intelligence occidentali impegnati in Libia hanno avuto fiducia in lui. Non è escluso che spetti a Belhaj di dirigere l’attacco a Sirte, se mai ci sarà .
La presenza di ex islamisti radicali, un tempo legati ad Al Qaeda, nelle file dei ribelli libici (ma ora preferiscono essere chiamati rivoluzionari), preoccupa l’Algeria, che non ha ancora riconosciuto il Consiglio nazionale di transizione, e che ha provocato la collera dei dirigenti libici accogliendo la famiglia di Gheddafi. Né Safiya, la moglie, né Aisha, la figlia che ieri ha partorito, né i figli Mohammed e Hannibal, sono inseguiti da mandati di cattura internazionale. Quindi il governo di Algeri non ha compiuto alcuna infrazione, ma i libici hanno considerato un affronto quella disponibilità  a ricevere la famiglia del raìs braccato. L’esercito algerino ha nel frattempo dispiegato numerose unità  lungo il confine, quasi volesse impedire infiltrazioni sul suo territorio.


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