La protesta operaia che ha scosso i faraoni

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IL CAIRO E A SUEZ
Marwa Hussein parla senza timori. «I militari sono i primi flul (pro-Mubarak). Non mi aspettavo cose straordinarie ma neanche così poco, non vanno oltre le trasformazioni minime. E usano le corti militari per imporre il loro volere», spiega mostrando sollievo per l’aria condizionata che rinfresca Groppi, uno dei rari caffè del centro del Cairo aperti durante le ore di digiuno del mese di Ramadan. Fuori il caldo è opprimente. Giornalista specializzata in economia, caporedattrice dell’edizione in lingua francese di al Ahram, Marwa Hussein ci indica due fattori importanti del dopo-rivoluzione. «Il primo – dice – è positivo: riguarda i lavoratori e i nuovi sindacati indipendenti, determinati a proseguire con maggiore intensità  la lotta per gli aumenti salariali e il miglioramento delle condizioni di lavoro». Il secondo invece è negativo, prosegue Hussein: «La struttura economica non è mutata rispetto all’era Mubarak. Certo, l’ultima legge di bilancio è migliore rispetto a quelle del passato perchè cerca di aiutare la maggioranza degli egiziani in gravi difficoltà  economiche. Ma la sostanza è la stessa, non c’è stato alcun avvio di trasformazione strutturale».
L’economia, fortemente liberista, rimane in mano ai soliti nomi, quelli che dettavano legge con la benedizione dell’ex raìs. Il governo di Essam Sharaf, soggetto alla «politica della stabilità  sociale ed economica» imposta dai militari, nemmeno osa scalfire i monopoli e i grandi patrimoni accumulati durante il regime «abbattuto» – ma in realtà  saldamente in piedi. Comandano grandi famiglie come i Sawiris: Neguib nelle comunicazioni, Samih nel turismo e Nasif nelle costruzioni ed industria. Ahmed Ezz, amico stretto dell’ex «delfino» Gamal Mubarak, sebbene in prigione in attesa di giudizio continua a tenere saldamente nelle sue mani la guida di un immenso impero economico. Mohammad Abul Hanin resta a capo del colosso «Cleopatra Ceramica». Mohammed Farid Khamis grazie ad amicizie che contano resta uno dei più importanti produttori di tappeti nel mondo. Safwan Saibet continua ad espandere «Juwahina», l’industria alimentare più solida del paese. Tra i grandi imprenditori legati mani e piedi a Mubarak, ha perduto terreno solo Hussein Salem, travolto dallo scandalo del gas egiziano venduto a prezzo di costo a Israele e perciò fuggito all’estero per sottrarsi all’arresto. «Non dimentichiamo le frodi fiscali» dice Marwa Hussein: «Si stimano in 60 miliardi di pound egiziani (circa 7 miliardi di euro) le tasse non versate dai ricchi e da chi è in grado di farlo» (esenzioni sono previste per i redditi inferiori a 5 mila pound, 580 euro, e per i lavoratori dipendenti sotto i 9 mila pound).
L’Egitto dello sfruttamento è intatto. «In questo paese la schiavitù di fatto non è cessata, a simboleggiarla sono le Piramidi che attirano tanti turisti, migliaia di anni di sfruttamento della maggioranza della popolazione a vantaggio di pochi. I faraoni ci sono ancora», ci dice con amarezza Houssam Hamalawi, marxista e tra gli attivisti più noti nella difesa dei diritti dei lavoratori. «Molti hanno dimenticato che la rivolta egiziana è cominciata, come in Tunisia, in nome del pane e del lavoro contro il liberismo capitalista, e solo dopo è diventata un ribellione per la democrazia e i diritti negati», aggiunge Hamalawi, ricordando le lotte operaie che la scorsa estate hanno visto scendere in strada decine di migliaia di lavoratori in tutto l’Egitto, contro la chiusura delle fabbriche e per l’aumento del salario minimo. Battaglie che erano figlie dei grandi scioperi nel settore tessile – causati dalle massicce privatizzazioni imposte dagli «economisti» vicini a Gamal Mubarak – e che qualche anno fa hanno paralizzato il centro industriale di Mahalla, nel Delta, sfociando nella nascita del «Movimento 6 aprile» protagonista della rivoluzione del 25 gennaio.
La disoccupazione è sempre elevata, anche tra i giovani laureati, costretti ad accettare qualsiasi lavoro pur di sopravvivere – quello di taxista nel migliore dei casi. D’altronde se prima della recessione mondiale l’economia egiziana con una crescita annua del 7% riusciva a creare un numero significativo di posti di lavoro, dopo il 2008 e il calo della crescita intorno al 4% la disoccupazione è diventata una dei motivi di maggior risentimento nei confronti del regime di Mubarak. «Il Comando supremo delle Forze Armate ha capito subito la pericolosità  degli scioperi per la stabilità  non del paese ma degli interessi della grande imprenditoria nazionale e degli investitori internazionali», spiega Hamalawy che da anni, ogni giorno, sul suo blog aggiorna la mappa delle rivolte dei lavoratori.
Non sorprende perciò che uno dei provvedimenti più restrittivi adottati (il 12 aprile) dai militari, dopo la caduta di Mubarak, sia stato quello di limitare il diritto di sciopero (le legge prevede condanne al carcere e multe salate per coloro che interrompono la produzione e le attività  lavorative). Per fortuna viene rispettato solo in minima parte. Gli scioperi sono quotidiani, ovunque, grazie anche all’attivismo dei nuovi sindacati indipendenti che hanno preso sostituito quelli di regime che il governo è stato costretto a sciogliere nelle scorse settimane.
E’ soprattutto a Suez che prosegue la battaglia dei lavoratori per l’aumento del salario oltre la soglia minima (intorno ai 700 pound) aumentata di recente dalle autorità , che però non compensa il calo del potere d’acquisto per il reddito di gran parte della popolazione.
Se piazza Tahrir al Cairo è il luogo-simbolo delle lotte per i diritti e la democrazia, il Canale di Suez è il centro delle lotte per la dignità  del lavoro. Da mesi migliaia di dipendenti dell’Autorità  del Canale di Suez (Acs) si battono per una vita dignitosa. «Il pensiero del nostro ruolo nazionale a Suez, legato all’importanza del Canale per l’economia nazionale, ci ha impedito di muoverci per lungo tempo. Ma le cose sono cambiate, siamo consapevoli dei nostri diritti e della legalità  della nostra lotta», dice il sindacalista Saud Omar a nome di migliaia di operai.
Sul muro dei uno dei cantieri in agitazione da mesi campeggia uno striscione con la scritta: «I lavoratori hanno sempre ragione, non i clienti», in riferimento alle 60 navi cargo, grandi e medie, che ogni anno si fermano per manutenzioni e riparazioni alla Suez Shipyard Co., una delle sette grandi compagnie operanti sotto l’Autorità  del Canale di Suez che ha generato, tra il 2009 e il 2010, 4,5 miliardi di dollari per le casse statali.
L’agitazione era cominciata l’8 febbraio quando i lavoratori della Acs hanno cominciato a chiedere aumenti salariali sull’onda delle manifestazioni anti-Mubarak che avevano visto in prima linea, sin dalla prima ora, anche Suez. Tante promesse fatte in questi mesi non sono state mantenute. Così sono partiti gli scioperi anche a Ismailiya e Port Said, ricorda Ali Shaarawy, un portavoce dei lavoratori. «Chiediamo un aumento dei salari del 40% e del 7% dei bonus di produzione, il miglioramento della quantità  di cibo in mensa», dice Shaarawy. Il clima nelle fabbriche e nelle rimesse del Canale di Suez è totalmente cambiato dopo la «rivoluzione del 25 gennaio». Oggi gli operai non si accontentano più di minuscole concessioni. L’aumento dei salari non è rinviabile, insiste: un operaio porta a casa ogni mese tra i 500 e il 1000 pound egiziani (70-140 euro) contro i 1.500-3.000 pound degli impiegati e i ben 24.000 pound dei consulenti dell’Acs.
Secondo «Solidarity with Worker’s Rights in Egypt», un rapporto sul mondo del lavoro egiziano pubblicato nel febbraio 2010, tra il 2004 e il 2008, 1,7 milioni operai e manovali hanno partecipato a 1.900 scioperi – un dato che non comprende la forte ondata di proteste dello scorso anno. E la nuova legge che consente il pluralismo sindacale non può far altro che favorire l’aumento degli scioperi. In non pochi casi i neonati consigli di fabbrica includono lavoratori di diverso orientamento politico, di sinistra e islamisti, accrescendo le potenzialità  delle lotte in corso, nonostante l’indifferenza dei Fratelli musulmani verso il sindacalismo indipendente (in più di una occasione in questi mesi gli islamisti hanno rivolto appelli alla stabilità  e continuano a non appoggiare gli scioperi).
«Il prossimo passo deve essere arrivare alla creazione di una confederazione dei sindacati per accrescere la forza dei lavoratori di tutte le categorie» propone Saud Omar. «L’organizzazione della classe lavoratrice è fondamentale per la trasformazione democratica dello Stato», aggiunge da parte sua Akram Ismail, dell’Associazione del Giovani Rivoluzionari e Progressisti.
Così mentre il dibattito politico e sociale in Egitto rimane in buona parte focalizzato sul confronto tra laici e religiosi, cresce il movimento dei lavoratori. La terza rivoluzione egiziana, dopo quella di gennaio contro Mubarak e quella breve dell’8 luglio dei giovani contro i militari, sarà  nalle fabbriche in sciopero, per realizzare le trasformazioni non ancora avvenute? Lo spera l’Egitto che guarda al progresso.


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