Karachi è un bagno di sangue
Che succede a Karachi? La Corte suprema del Pakistan ha aperto una formale inchiesta per rispondere a questa domanda – lo ha annunciato ieri. I fatti da indagare sono sotto gli occhi di tutti, spiattellati ogni mattina sui quotidiani: un’ondata di uccisioni, regolamenti di conti, guerre per bande. Oltre 400 persone sono state uccise negli ultimi 2 mesi, almeno 800 (alcune fonti dicono quasi 1.000) dall’inizio dell’anno. Interi quartioeri popolari vivono come barricati – anche se le zone più chic della città vivono quasi normalmente.
La metropoli pakistana affacciata sul mare Arabico, con i suoi circa 18 milioni di abitanti, non è nuova alla violenza – i media parlano di guerre di gang e tra gruppi etnico-politici. Ma 400 morti in due mesi sono molti anche per gli standard di Karachi, e la crisi «locale» sta diventando una crisi nazionale. Tanto che il governo parla di inviare le forze paramilitari a rinfirzo della politica locale, e in effetti l’invio dei commando antisommossa è stato annunciato – ma non è chiaro se sia avvenuto, e soprattutto che abbiano ottenuto qualche effetto. Da anni Karachi è una città di grandi polarizzazioni etnico-politiche. Capitale della provincia meridionale del Sindh ma soprattutto capitale economica di tutto il paese, hub dell’economia e del commercio di tutta la nazione: con il suo porto, la borsa, la banca centrale e un entroterra industriale Karachi fa circa un quatro dell’intero Pil pakistano. Le cronache di sangue proseguono: gang che compiono raid in pieno giorno, persone prelevate e corpi scaricati per strada con i segni di torture, o magari bendati, cadaveri trovati nei fossi. «I partiti politici hanno lasciato mano libera ai loro soldati semplici», diceva giorni fa all’agenzia Reuter un ufficiale delle forze di sicurezza, che parla di «pulizia etnica». In effetti la Corte suprema ha deciso di intervenire dopo che un dirigente del partito di governo (il People’s Party del presidente Asif Ali Zardari) ha accusato un altro partito, il Mqm, di alimentare la violenza – accusa che questo partito respinge, e addossa invece a un terzo partito, la Awami National League.Per capire come una città così importante possa sprofondare nel caos e nella guerra di bande bisogna fare un passo indietro. A luglio, quando il Mqm ha deciso di uscire dal governo provinciale del Sindh e da quello nazionale – in entrambi era partner della coalizione di maggioranza guidata dal partito popolare. Il Mqm, o «Movimento dei mohajir», è il partito dominante a Karachi: rappresenta la popolazione musulmana che arrivò nel 1947, al momento della decolonizzazione, dalle regioni del subcontinente indiano che restavano India dopo la nascita del Pakistan. Gli sfollati di lingua urdu sono diventati una componente demografica importante di Karachi, anche se sono presto cominciati gli attriti con gli abitanti originari, i sindhi, e negli anni ’90 la tensione era sfociata anche allora in violenza politica, stabilizzata solo con una operazione dell’esercito.
Intanto però Karachi, con il suo porto, la borsa, un retroterra industriale, ha continuato a crescere con altri immigrati da tutto il paese. E la bilancia demografica è cambiata ancora: oggi i pashtoon, immigrati dalla provincia nord-occidentale alla frontiera con l’Afghanistan sono 3 o 4 miliioni (di cui circa un milione afghani). I mohajir, pur dominanti, sentono che la loro supremazia è minacciata. I pashtoon, rappresentati dalla Awami League (che non è un partito religioso, a smentire l’immagine di una popolazione filo-taleban), sono molto presenti nel commercio e soprattutto nella filiera dei trasporti, che a Karachi è importante (città portuale da cui le merci sono smistate in tutto il paese) e lo è ancora di più da quando è il porto d’arrivo del 90% della logistica destinata alla nato in Afghanistan. In una sua indagine, un mese fa, la Commisisone per i diritti uamni in Pakistan (gruppo indipendente che sio batte per la democrazia e i diritti civili) aveva concluso che Karachi è travolta da un’ondata di violenza etnica e settaria di cui partecipano diverse parti, e che mafie (potente quella della terra) hanno sfruttato la situazione, approfittando del caos, ma non ne sono il motore. Citava tutti i problemi irrisolti della crescita urbana (si pensi che metà della popolazione vive in slum insediamenti spontanei più o meno urbanizzati), nella corsa all’appropriazione di terre edificabili, nel controllo di risorse economiche e commercio, e nella competisione politica risultante: dove le guerre di interessi sono state incanalate in guerre etnico.settarie. in altri termini: serve u nuovo patto tra i partiti che controllano i voti della città , perché si calmi la guerra sul terreno
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