Conti e partecipazioni azionarie Il «tesoretto» del Colonnello

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Il governo li anticiperà  in attesa di ottenere l’autorizzazione per poterli prelevare dai conti libici custoditi nelle nostre banche. Lo sblocco tuttavia potrebbe anche essere rapido visto che ieri, intanto, l’Onu ha acconsentito a svincolare 1,5 miliardi di dollari appartenenti al regime.
Secondo stime affidabili, i conti libici nel nostro Paese custodirebbero 9,8 miliardi di dollari, per la metà  liquidi, depositati in Intesa Sanpaolo, Unicredit, di cui la banca centrale della Libia è azionista, e in Banca d’Italia. A cui vanno sommati i 3 miliardi di valore delle partecipazioni in Finmeccanica, Unicredit, Eni, Juventus detenute direttamente o indirettamente dalla Lia, il potente fondo sovrano libico in cui la Grande Jamahiriya ha reinvestito i proventi del petrolio e del gas.
Un tesoretto tutt’altro che trascurabile, tenuto da Gheddafi nel Paese che storicamente ha rappresentato una delle basi logistiche più importanti per gli investimenti del regime di Tripoli, che negli anni 70 a Roma ha anche costituito una banca, Ubae, oggi in commissariamento straordinario. L’istituto, partecipato dalla Libyan Foreign Bank insieme a Unicredit, Intesa, Montepaschi, Eni, Telecom Italia, è stato uno dei più importanti crocevia dell’interscambio Italia-Libia. Un ponte che, anche dopo la firma del Trattato di Amicizia, ha aperto la strada di Tripoli a molte piccole e medie imprese italiane. La Camera di Commercio ItalAfrica Centrale stima che sono circa 130 le nostre aziende stabilmente impegnate in Libia. Attendono anch’esse lo sblocco dei beni di Gheddafi in Italia, auspicando che pagamenti in sospeso e contratti annullati con lo scoppio della rivoluzione siano onorati dal Cnt. Si tratta di qualche miliardo di dollari: solo Impregilo ha una commessa da 1 miliardo per costruire tre poli universitari e la Conference hall di Tripoli, lo stesso Finmeccanica, Ansaldo Sts ha due appalti da 740 milioni. Tutto fermo in attesa della caduta del Raìs.
Quella custodita in Italia, tuttavia, è solo una frazione dell’immenso patrimonio accumulato in 40 anni dal Raìs. Con lo scoppio della rivoluzione è venuto alla luce quasi tutto. Prima di approvare la risoluzione con cui ha congelato tutti i beni del regime, l’Onu ha fatto una mappatura piuttosto precisa di dove sono i soldi. Quelli «ufficiali», ovvero della Libyan Central Bank, 107 miliardi di euro di riserve, e dei fondi sovrani libici, a cui farebbero capo altri 70 miliardi di dollari di investimenti. E poi l’oro, una montagna: 143 tonnellate. Restano fuori i depositi personali della famiglia Gheddafi. Si favoleggia di 100 miliardi di dollari depositati in Svizzera. E di oro, in parte custodito a Tripoli, che nei mesi scorsi il leader ha cercato di vendere.
Lo ha rivelato al Corriere l’uomo che aveva le chiavi del forziere: l’ex governatore della banca centrale, nonché vicepresidente di Unicredit, Farhat Bengdara. Dopo la fuga da Tripoli, il banchiere ha continuato a lavorare nell’ombra per tenere sotto controllo gli interessi accumulati dal suo Paese all’estero. Non certo per conto di Gheddafi. È volato negli Usa, a Londra, a Dubai e si è visto spesso nel suo ufficio milanese in Piazza Cordusio. Tanta attenzione, forse, è dovuta anche al fatto che, vedi Haiti, Panama o Nigeria, troppe volte alla caduta dei regimi i soldi dei dittatori sono evaporati. In questo caso sarà  più difficile, visto che l’Onu ha una mappa e che Bengdara ha mollato il regime iniziando a tessere in giro per il mondo la tela per il dopo-Gheddafi.


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