Andare a vedere per capire: la missione dell’inviato

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Due di loro li conosco bene, uno poco; una, Elisabetta, è un’amica, anzi è la migliore amica che uno possa immaginare. Buona, seria, discreta, incapace di concepire l’egoismo, e soprattutto dotata di una penna decisamente superiore in un momento di dilagante mediocrità .
Lei è l’esatto contrario della sottocultura vincente dell’apparire. Quando l’altro giorno, prima di partire, mi aveva chiesto qualche consiglio, ricordando che era il suo primo viaggio in Libia dopo una vita professionale che l’ha vista cronista, corrispondente dall’estero e inviata di punta in mezzo mondo, non le avevo suggerito nulla, se non l’incoraggiamento a raccontare quel che vedeva. Bene, benissimo, come lei sa fare come pochi.
Non hanno fatto nulla di male i nostri quattro colleghi, e a onor del vero non volevano fare nulla di clamoroso. Non cercavano scoop o esclusive. A poche decine di chilometri da Tripoli volevano trovare una vicenda, che so, una storia efficace, un dettaglio umano per raccontare l’epilogo di un conflitto. Una storia che nessuna pagina di Internet, nessuna immagine televisiva può suggerire o anticipare. Facevano quello che i grandi inviati e i grandi cronisti hanno sempre fatto: andare a vedere, e poi essere capaci di riflettere su ciò che avevano visto.
Tutti e quattro sono cresciuti nel mondo della cronaca, ed hanno imparato a frequentare i sacrifici di una missione. Sguardo sveglio, curiosità , intelligenza, e soprattutto pronti alla fatica, anche fisica. A nessuno di loro poteva sfuggire che il momento peggiore, quindi più pericoloso di una guerra è proprio la fase finale, dove ormai è chiaro che un fronte ha vinto (o vincerà ), ed è altrettanto chiaro che altri saranno costretti alla sconfitta. Non ad accettarla, perché ci vuole sempre molto coraggio ad accettare una sconfitta, ma a doversi piegare a chi è riuscito a prevalere. Magari dopo aver costruito, per decenni, una carriera, oppure un confortante orticello, o magari una fortuna, una ricchezza. Quanto è accaduto ai quattro colleghi sembra riproporre un feroce copione. Mentre i giornalisti andavano a cercare di ascoltare le ragioni di ciascuno, i sensali del proprio interesse, dell’avidità , dell’egoismo, li hanno fermati, depredati di tutto (soldi, ma soprattutto computer e satellitari, cioè i preziosi strumenti di lavoro), e dopo aver ucciso il povero autista, di cui forse nessuno ricorderà  il nome, li hanno consegnati ai militari, probabilmente leali al colonnello Gheddafi.
Sono le spietate logiche di un conflitto che si sta concludendo, anche se non è detto che possa concludersi in fretta. Sono questi i momenti nei quali la vigilanza deve essere massima. Infatti, in questi momenti i codici «cavallereschi», se così si può ancora dire, vanno in pensione. Ora trionfano i calcoli dell’immediato tornaconto e in qualche caso della vendetta. Chi ha vissuto questi momenti può testimoniarlo. È accaduto in Libano, in Iraq, nel Kosovo, in Afghanistan, durante guerre che sono cominciate e sono finite, e ai margini di conflitti ancora in corso e sanguinanti. A volte, anzi più di una volta ci siamo domandati angosciosamente se valga sempre la pena andare a vedere per raccontare, per testimoniare, per dimostrare che il giornalismo vero non è morto, e non è al servizio del potere. La risposta dei tanti che ci credono è laconica: sì, vale la pena.
Quel che conforta è che, dopo una giornata vissuta nel terrore, i nostri quattro colleghi — come conferma la Farnesina — stanno bene. Saranno pure in buona salute, ma consentite a chi scrive di immaginare che cosa alberghi nella loro mente e nel loro cuore. Ciao, cari colleghi, cari amici. Un forte abbraccio e forza!


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