Nelle mani dei miliziani I giornalisti di Corriere, Avvenire e La Stampa

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ROMA — «Cerchiamo un’auto per Tripoli, ci vuole un autista fidato…». Se lo sentivano, ieri mattina, i due inviati del Corriere Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina, l’inviato di Avvenire Claudio Monici e quello de La Stampa Domenico Quirico, lo sapevano che stavolta sarebbe stata un’impresa assai complicata, più insidiosa del solito, più pericolosa delle altre volte. «Serve un autista fidato, la strada per Tripoli è piena di trappole…». Perciò, l’avevano subito comunicato con il telefono satellitare ai colleghi in Italia, già  prima che cominciasse la riunione del mattino.
Certe cose si avvertono sulla pelle, non le puoi condividere con nessuno, sono sensazioni e basta, inquietudini forti, malesseri strani che per fortuna poi passano e ti lasciano andare. E stiamo parlando di reporter di enorme esperienza, che i pericoli li hanno visti tante volte in faccia, Elisabetta Rosaspina per esempio quando andò a seguire la strage di Beslan, Giuseppe Sarcina quando a marzo scorso si trovò alle prese da solo con gli spietati scafisti tunisini.
Da Zawiya a Tripoli sono 40 chilometri di strada dritta e polverosa, a febbraio quando la rivolta era appena scoppiata e l’esercito di Muammar Gheddafi controllava ancora la zona, c’erano mille checkpoint da superare, carrarmati e autoblindo con i cannoncini della contraerea installati, filo spinato, soldati governativi nervosi, solo qualche negozio aperto e uomini seduti ai tavolini dei bar che fissavano il vuoto. Ma adesso che i ribelli hanno sfondato, dilagato, sono arrivati dappertutto, perfino dentro Bab al Aziziya, gli equilibri sono completamente saltati, il territorio non è più suddiviso in due, di qua i ribelli e di là  i lealisti del Colonnello, adesso ogni zona è fuori controllo, in ogni strada, in ogni momento, puoi trovarti davanti un rivoluzionario, un nostalgico del regime, un mercenario confuso, oppure — peggio — dei delinquenti comuni, ora ce ne sono parecchi in giro, scappati dalle prigioni approfittando del caos. E tutti, rigorosamente tutti, armati di pistole, kalashnikov, granate. Coi nervi a fior di pelle, disperati, pronti a tutto. In tanti sparano in aria, e non solo in aria: due giornalisti francesi feriti da colpi d’arma da fuoco vicino a Bab al Aziziya. Per fortuna non sono gravi.
Alle 10.47 di ieri mattina — una volta trovato l’autista — Giuseppe Sarcina ha parlato con la collega Orsola Riva, a Milano. C’era anche Elisabetta Rosaspina vicino a lui. Hanno concordato — come sempre succede — i servizi del giorno. «Una volta a Tripoli, Elisabetta cercherà  di incontrare una famiglia normale per raccontare la vita di tutti i giorni nella capitale sconvolta dalla guerra — diceva Orsola —. Giuseppe invece punterà  di più sulle difficoltà , sui disagi della popolazione, l’elettricità  che manca, la spazzatura che invade le strade, i telefoni in tilt…». E il viaggio è iniziato, c’erano loro due, l’autista e gli altri reporter italiani, Monici di Avvenire e Quirico de La Stampa.
Alle 12.47, due ore dopo, si sarebbero dovuti risentire con Orsola. Ma è caduta la linea e da quel momento è cominciato l’incubo. Anche Monici aveva un appuntamento telefonico alle 13.30 col suo giornale, ma è saltato. In quel momento, sulla strada per Tripoli, si stava già  consumando l’agguato. Un gruppo di civili armati, banditi probabilmente, ha dato l’alt alla macchina intimando ai passeggeri di scendere. I quattro reporter sono stati malmenati e rapinati di tutto: computer, soldi, telefoni satellitari. Minuti d’inferno, con la paura folle di finire senza motivo sotto una raffica di mitra. E infatti quello che accade pochi secondi dopo lo racconta il console italiano a Bengasi, Guido De Sanctis: «L’autista del mezzo viene ucciso senza pietà  davanti agli occhi dei quattro inviati». Una scena terribile. Poi la banda li porta via da lì, li rapisce e il commando dei sequestratori punta proprio su Tripoli.
Quando la notizia arriva in Italia subito il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, si mette in contatto con l’unità  di crisi della Farnesina. La Federazione internazionale della stampa esprime «grande trepidazione». «Chiediamo il loro immediato rilascio» dice Michael Mann, portavoce dell’alto rappresentante Ue per la Politica estera e la Sicurezza, Catherine Ashton. Anche Palazzo Chigi segue minuto per minuto le operazioni di salvataggio. C’è un po’ di preoccupazione, in verità , per l’incontro che proprio oggi a Milano il premier Silvio Berlusconi avrà  con il primo ministro del governo provvisorio dei ribelli, Mahmoud Jibril: «Potrebbero innescarsi ritorsioni contro i nostri giornalisti da parte dei lealisti» ammonisce il senatore Stefano Pedica dell’Idv. La Farnesina, comunque, stabilisce un contatto con i rapitori, che consentono dopo qualche ora all’inviato di Avvenire, Claudio Monici, di telefonare in Italia con un cellulare privato della rete Lybiana. Sono le 19 quando Monici parla col suo giornale: «Stiamo bene, stiamo tutti insieme» ha la voce calma, Monici, ma è anche vero che in vita sua tante volte si è trovato in emergenza e dunque come gli altri tre sa dominarsi. Anche a Quirico viene concesso di telefonare, chiama la moglie: «Stai tranquilla, tutto bene».
Quel numero di cellulare diventa preziosissimo. Anche il console De Sanctis, che a Bengasi lavora gomito a gomito col suo collega Massimiliano Lagi, console italiano a Tripoli ma temporaneamente per forza di cose allocato in Cirenaica, compone il numero e riesce a parlare con Monici: «Al tramonto, al termine del digiuno imposto dal Ramadan, ci hanno rifocillato con frutta e acqua, ci trattano bene» dice l’inviato di Avvenire.
Intanto, però, i civili della prima ora se ne sono andati e hanno affidato (venduto?) le loro prede a dei miliziani lealisti che hanno portato i quattro inviati italiani in un appartamento privato di Tripoli, dalle cui finestre si vede il centro commerciale di proprietà  di Aisha Gheddafi, la figlia del Colonnello. Nei pressi c’è anche il bunker (ormai espugnato) di Bab al Aziziya eppoi l’hotel Rixos, per mesi base ufficiale della stampa internazionale, dove fino a ieri sono rimasti in ostaggio altri reporter stranieri, ora rilasciati e affidati alla Croce Rossa.
Dopo averli malmenati brutalmente, dunque, li hanno rifocillati. «Comportamento strano, misteriosissimo — dice il console italiano a Bengasi — continueremo a telefonare cercando di capire quali sono le loro intenzioni». Ma in questa situazione di caos è difficilissimo muoversi, capirci qualcosa. La mappa della sicurezza della città  cambia di ora in ora: ieri mattina alle 8 potevi andare a Bab al Aziziya, già  alle 10 non ci potevi più arrivare. Gli ultimi appelli di Aisha, la figlia di Gheddafi, a prendere le armi contro gli stranieri e contro la Nato, poi, rendono ancora più pericolosa la posizione dei giornalisti stranieri: tutti agenti Nato, secondo la propaganda del regime.


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