La capitale che vive nella paura
«Come viviamo? Con la paura, nella paura. La paura è un fiato caldo, un soffio che non vedi ma che ti riscalda all’improvviso. E non passerà presto, rimarrà , rimarrà ancora a lungo». Fergiani, il libraio di Tripoli, l’aveva detto: «Questi sono duri, resisteranno a lungo».
«E quando i ribelli arriveranno qui in città , quando chi a Tripoli ha coraggio e scenderà in strada, allora vedremo il peggio del peggio, il botto finale di questi 40 anni di paura». Kokac, il direttore dell’albergo, l’aveva detto: «Io ti dico: noi stiamo per andarcene, chiudiamo», aveva sussurrato nei corridoi del Rixos il poderoso Sukru Kokac, il turco messo a comandare su un albergo intero di turchi. Hanno venduto, il turco milionario proprietario della catena ha venduto agli svizzeri, e se ne sono andati: da ieri gli ultimi giornalisti stranieri al Rixos sono ostaggio degli ultimi fedelissimi gheddafiani in un albergo abbandonato anche dagli svizzeri.
Anche Badria, la ginecologa gheddafiana, l’aveva detto: «Gioia mia, il nostro leader non abbandonerà mai, combatterà fino in fondo, devono rassegnarsi questi minchia di ribelli, dovete capirlo voi». «Gioia mia» sussurra Badria in italiano, anzi in lieve siciliano: ha studiato a Palermo quando la Libia di Gheddafi mandava i suoi giovani a costruirsi in Italia. Gheddafi e la Sicilia l’hanno fatta medico, l’hanno emancipata come donna e come professionista. Lei non vorrebbe tradire né Gheddafi né l’Italia. Il suo lavoro le porta pazienti da tutta la Tripolitania, un colpo di telefono e sa quanti ribelli arrivano a Zawiya, cosa succede a Misurata oppure quante bombe a Zlitan. Ma adesso anche lei ha paura, «c’è casino gioia, ciao».
Il libraio di Tripoli, il direttore dell’albergo, la ginecologa gheddafiana. Tutti sapevano, tutto era già stato sussurrato, era scritto ma non poteva essere scritto. C’è un italiano rimasto a Tripoli, forse uno soltanto adesso che il vescovo Martinelli è in Italia per vacanze. E’ Bruno Dalmaso, il guardiano del cimitero, una leggenda italiana, un imprenditore miliardario nell’Eritrea e nell’Etiopia post-coloniale. Con i suoi aerei privati arrivava in Libia quando voleva, poi Menghistu in Etiopia gli fece scomparire tutto. E poi Gheddafi in Libia gli ha fatto scomparire di nuovo tutto, e lui è rimasto a Tripoli, «guardiano del cimitero che è il simbolo della nostra Italia migliore». Dalmaso no, non faceva previsioni, non parlava di politica. Ma adesso anche lui ha paura: al telefono spiega che «dopo 6 mesi di bombe capiamo qualcosa anche noi, e sabato notte abbiamo capito subito che erano entrati in città . Il segnale l’hanno dato dalle moschee alla fine del digiuno del Ramadan. Non c’erano solo le bombe della Nato, non c’erano le sparatorie per aria di quelli di Gheddafi. Ci sono stati i combattimenti, e ci sono ancora, vanno e vengono. Noi non usciamo, non possiamo far nulla. Cibo? C’è ancora, ma la benzina, il carburante manca, la città è ferma, il gas, le bombole per cucinare costano una follia».
Ahmed, un amico del libraio Fergiani, un altro che parla bene italiano e che ci aveva guidato per mano fra gli scaffali della libreria, parla senza paura: «Io domenica notte sono sceso in piazza Verde, eravamo tutti pazzi di gioia. Abbiamo capito subito chi sono questi ribelli, sono quasi tutti delle montagne Nafusa, molti sono berberi, non sono arabi come noi, ma certo siamo tutti libici». Ahmed a Tripoli ha provato a frequentare i giornalisti italiani, a fare qualche soldo insospettendo qualcuno perché era troppo apertamente contro Gheddafi. «Oggi però ho paura, se non convincono Gheddafi a uscire fuori, a dire che è finita, tutti quelli che sono marchiati, infettati col suo sangue continueranno a impazzare per Tripoli. Lo sapete che ci sono i cecchini, come a Misurata? L’altra notte hanno sparato anche sulla piazza Verde, ancora non è finita. Questi sono pazzi: se uno decide di combattere fino in fondo contro la Nato, contro l’America, è pazzo. E allora spareranno da pazzi, fino all’ultimo».
Ahmed racconta che nella notte di domenica in piazza Verde anche i più giovani e i più vecchi sembravano impazziti, di felicità . «I più giovani perché scendono in strada dopo aver guardato la televisione, vogliono essere eroi per un giorno, l’hanno visto in tv, in Egitto, in Tunisia, voglio farlo loro. I più vecchi perché sanno che c’era un’altra Libia, una Libia gentile, non così violenta, cosi sporca e corrotta come quella comandata dalla famiglia mafiosa Gheddafi. Sì, la Libia era comandata da un branco di mafiosi e voi italiani, francesi, turchi, americani avevate scelto tranquilli di fare affari con i mafiosi».
Al telefono adesso c’è un ultimo libico, ha due telefonini, uno dei due gestori ha interrotto i contatti, ma l’altro funziona ancora. «Io non ho paura di questi giorni, di questa violenza. Lo sapevo che sarebbe finito così, e noi stiamo in casa. Ho paura che sarà lunga, che per passare alla dittatura alla democrazia dovremmo gettare molto sangue. Come si fa a farlo senza sangue? Come possiamo farlo senza ucciderci ancora tra di noi?». Con Gheddafi, l’uomo nero, la Libia ha paura. Senza Gheddafi, l’uomo sconfitto, la Libia avrà ancora paura.
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