Cartoline della speranza nel giorno della Liberazione
Ci guardano e ci sorridono da un tempo che conoscemmo e che abbiamo dimenticato, il giorno della liberazione. Ce l’hanno fatta. La ragazza con lo hijab nero attorno al capo e gli occhiali «aviator», il bambino con il cappello a cono del piccolo Harry Potter del deserto, il vecchio beduino con la barba grigia e l’occhio incendiato dall’emozione, sono riusciti a vivere quel miracolo che chiamammo «Liberazione».
Quel miracolo che la storia regala con estrema avarizia a chi se la sa conquistare.
Forse saranno liberi soltanto per un giorno, e quella felicità che la luce dipinge sui volti dei libici oggi potrà essere cancellata da nuove ombre di buio, perché la storia che ricomincia non è mai una garanzia di nulla e la guerra, neppure se vittoriosa, non è necessariamente una levatrice prodiga. Ma è impossibile non commuoversi e non invidiare una scintilla della loro ebbrezza. Perché in queste ore, dopo quarant’anni, la generazione dei giovani come dei vecchi che si erano forse rassegnati, hanno ritrovato un bene chiamato “speranza”. Quella materia prima che per decenni è mancata a centinaia di milioni di prigionieri di regimi e governi torvi, soprattutto, ma non soltanto arabi, dal Nord Africa fino all’Asia Centrale. E che tanti europei e americani li credevano geneticamente, culturalmente incapaci di distillare.
Molti di loro esibiscono l’arma letale che sta facendo tremare i tiranni e i tragici pagliacci in tutto il mondo e non sono l’immancabile AK 47 né la bandoliera di proiettili alla “Viva Zapata” sulle spalle che un ribelle esibisce.
Guardatela: è il telefonino “smart” che la giovane donna con i Ray-Ban a specchio innalza sopra la testa per riprendere il video di se stessa in festa e che il partigiano con il mitra porta appeso al collo come un amuleto. È quell’apparecchio che attraverso i “tweets” e la posta elettronica, facebook e i social network ha trasformato un’altra sommossa tribale e locale, facilmente sopprimibile e ancora più facilmente occultabile dalla televisione, in uno scandalo mondiale, dunque in una mobilitazione internazionale. Neppure il petrolio, senza la miccia dei telefonini, avrebbe fatto esplodere Gheddafi.
La guerra civile libica si è combattuta fra le due immagini opposte e più simboliche di questo evento, la ragazza con lo “smartphone” e la “anchorwoman”, la lettrice del tg con la pistola impugnata per la canna che vediamo sbraitare di resistenza fino alla morte quando già bussavano alla porta per arrestarla senza colpo ferire. Ci dicono, queste due immagini, che neppure la televisione dei servi, l’ultimo rifugio dei farabutti, la stampella magica dei bugiardi, è più sufficiente a garantire che un governo possa ingannare tutti, tutti i giorni. Lo “smartphone” fa tremare i regimi sulla piazza Tahiri del Cairo, in Siria, in Iran e come ben sa il Partito Comunista Cinese impegnato ogni giorno in un duello al “gatto col topo” fra la propaganda di stato e la comunicazione elettronica individuale.
Non sono neppure soltanto di giovani, o addirittura di bambini eccitati senza capire, i volti e le figure che queste cartoline dalla speranza ci inviano. Vediamo anche uomini, in grande maggioranza uomini, avanti negli anni, gente di mezza età abbondante, che erano giovani in quell’estate del 1969 quando Muammar Abi Minyar Abd Al Salom Al Gheddafi condusse la sua rivoluzione repubblicana.
Probabilmente loro stessi, il vecchio Senussi dal volto magro e l’imam che predica urlando nelle foto, si agitavano nelle stesse vie di Tripoli scandendo il suo nome e agitando poi il “libretto verde” di un’altra speranza tradita, quella del nazionalismo pan arabo dei Nasser in Egitto, dei Saddam Hussein in Iraq, dei Boumedienne in Algeria e degli Assad in Siria.
Oggi vediamo lo stesso vecchio innalzare un ritratto dell’uomo al quale aveva inneggiato e che appare ridicolmente grottesco nel costume di scena da dittatore e condottiero, buttarlo nel falò di un altro predatore travestito da benefattore e gridare insulti contro di lui, mentre i suoi nipoti esibiscono cartoon con l’impiccagione del raìs, ridendo come se fossero a una festa per un mondiale di calcio. Ma non potrà stupire né scandalizzarci questo “tradimento”, il solito scoprirsi tutti “anti” nel giorno della Liberazione, di fronte alle acrobazie dei governanti europei che avevano addirittura baciato quella stessa mano che poi avrebbero contribuito a tagliare.
Le cartoline della speranza naturalmente non ci dicono nulla del futuro, di che cosa aspetti questa gente che ha rifatto il percorso che noi europei prigionieri di regimi osceni appena ieri abbiamo fatto, abbattendoli anche grazie alle bombe e agli aerei dei liberators. Non lo possiamo dire perché all’album di questa felicità cruenta e insieme giocosa – la stessa che alcuni di noi ebbero la fortuna di vedere a Kuwait City nel 1991 e, del tutto effimera, a Bagdad nel 2003, perché nessun irakeno aveva preso le armi per deporre Saddam e nessuno sentì come propria la liberazione – manca ancora la foto più importante. Quella di Gheddafi.
Lo vediamo giustiziato in effigie, con il viso torturato e contorto nella smorfia involontaria di un poster che si accartoccia, ma l’uomo resta, in queste ore, uno spettro. Da quella foto, dalla sequenza della sua fine e del trattamento che gli verrà riservato dalla nazione che ha tiranneggiato per una generazione che ancora nessun obbiettivo, neppure di un cellulare, ha ripreso, capiremo molto. Nella speranza, questa volta nostra, di non rivedere l’orrore del Saddam impiccato in video o di un cadavere gonfio appeso a un lampione.
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