«Il clima è cambiato La pace con l’Egitto non potrà  durare»

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GERUSALEMME — Diceva Sadat che il villaggio di ogni uomo è la pace della sua mente. Dopo il turbolento sabato dei villaggi fra il Negev e il Sinai, le menti diplomatiche non hanno ancora ritrovato la pace condivisa per trent’anni. Ai marescialli egiziani non basta il «rammarico» israeliano per i poliziotti ammazzati. Il premier Bibi Netanyahu non crede di dover fare altro. L’incendio non è domato: crollano le borse del Cairo e di Tel Aviv; cala la (scontata) condanna della Lega Araba; scende in campo il vecchio Shimon Peres, il presidente che a 88 anni è sempre chiamato a fare il pompiere; atterra lungo il Nilo una delegazione incaricata di ricucire. La crisi è superabile? «Nel periodo immediato, sì — dice Mordechai Kedar, esperto di popoli arabi all’università  Bar-Ilan di Tel Aviv — ma il futuro è già  scritto: le relazioni fra i due Paesi non possono che peggiorare».
Camp David diventerà  un camposanto lastricato di buone intenzioni: «Nessuno vuole che i jihadisti prendano il controllo del Sinai. E quindi ora si farà  pace. Ma che succederà , quando i Fratelli musulmani arriveranno — perché ci arriveranno — al governo? Nel dopo Mubarak, già  si vedono i risultati d’una certa anarchia. La politica egiziana sta uscendo dai suoi binari tradizionali. E prima o poi la Fratellanza porrà  la questione: che fare dei trattati con Israele? O si stracciano o si congelano: non c’è altra opzione». Ospite frequente dei talk di Al Jazeera, consulente per 25 anni dell’intelligence militare israeliana, Kedar conosce bene il carissimo (ex?) nemico egiziano. E ne diffida: «Non ci sarà  mai una guerra con noi. Gli islamici sanno di non essere pronti e che la manutenzione dell’arsenale egiziano dipende dai dollari, dagli euro, dai rubli. Piuttosto, punteranno a rifornire d’armi Gaza». Lo dice perché anche il governo del nuovo Egitto, in questi mesi, ha mostrato più interesse a Hamas che a Israele? «La giunta militare sostiene chi la piazza vuole che si sostenga. Ha visto le foto delle bandiere con la stella di David bruciate al Cairo? Su una c’era scritto, in arabo, “maiali”. Nella società  egiziana, l’odio per Israele è una cosa profondissima, che sconfina spesso nell’antisemitismo. La piazza vuole che Israele sia incenerito, nient’altro. E sarà  la piazza a dettare l’agenda politica».
C’era una volta la diplomazia, però. E la possibilità  di placare la piazza: magari, dicendo sì al nuovo Stato palestinese… «Non vedo come. Anche se il 20 settembre l’Onu votasse il nuovo Stato, e Israele lo riconoscesse, che vuole che importi ai Fratelli musulmani? Per loro, il problema non è un chilometro in più di terra: il punto è che Israele non deve esistere. Il messaggio viene ripetuto ogni settimana, nelle moschee egiziane. E nessuno lo contesta».
Siamo solo all’inizio, insomma… «Esatto. Il fronte Sud riguarda tutto il Medio Oriente. C’è un collegamento fra la strage di Eilat e il voto all’Onu: a Hamas, pagata dai Fratelli egiziani, non interessa che i palestinesi di Abu Mazen abbiano uno Stato, perché tanto non sarebbero loro a governarlo. Però c’è un collegamento anche con la crisi siriana: Teheran vuole alzare la tensione nel Sinai, così Assad può massacrare senza troppo disturbo. L’Egitto è una scacchiera, ora aspettiamoci un’altra mossa. Dopo il cessate il fuoco, arriverà  altro fuoco».
Francesco Battistini


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