I ribelli sfondano a Tripoli Feste e spari nelle strade
ZAWIYA — I ribelli entrano a Tripoli. Tra urla di giubilo e raffiche di mitra in aria in segno di vittoria, l’offensiva da Ovest ha sfondato le linee di difesa intorno alla capitale. Già nel pomeriggio, in città i combattimenti si erano fatti intensi, strada per strada, casa per casa, soprattutto nei quartieri orientali, ma in generale nelle periferie. Centinaia i morti, forse quasi 500 in poche ore, oltre a un migliaio i feriti. Poi la difesa del Raìs si è sfaldata.
In serata, Al Jazeera mostrava le immagini di migliaia di persone in strada, e anche nella Piazza Verde, che esultavano e strappavano foto di Gheddafi. Gli insorti hanno annunciato la cattura di Saif Al Islam, il secondogenito ed erede designato del Raìs. «Verrà trattato bene, in modo che possa affrontare un processo», ha assicurato il presidente del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi, Mustafa Abdel Jalil. Il procuratore generale della Corte penale internazionale Luis Moreno Ocampo ha detto di sperare di vederlo presto all’Aja. Giungevano anche voci non confermate della cattura di Saadi, terzogenito di Gheddafi, già calciatore in Italia, e della resa del primogenito Mohammed.
Con gli insorti ormai nel cuore di Tripoli, il regime ha offerto «un cessate il fuoco immediato». I leader dei ribelli hanno subito replicato che smetteranno di combattere solo quando Gheddafi lascerà il potere e il Paese e, dopo la mezzanotte, annunciavano di controllare ormai quasi tutta la capitale, tranne Bab Al Aziziya, il rifugio-bunker di Muammar Gheddafi. Ma nella notte, scontri e sparatorie continuavano in vari quartieri della città .
Il Colonnello non si arrende. Ieri sera, in un messaggio audio alla tv di Stato, il terzo in ventiquattr’ore, Gheddafi ha chiesto ai libici di imbracciare le armi. «Salvate Tripoli o sarà distrutta. Ripulite la città ». Ha avvertito che in caso contrario saranno schiavi degli Occidentali. «Respingeremo questa guerra di invasione che vuole riportare il colonialismo italiano. E per di più anche quello francese». Contro chi lo dava già in fuga, o in procinto di trattare la resa, già in un altro messaggio audio pomeridiano il Colonnello aveva ripetuto: «Non mi arrenderò mai. Temo che Tripoli brucerà . Libici, venite a difendere la vostra capitale. Io resto qui a combattere e lo farò sino all’ultima goccia del mio sangue. Vinceremo. Vinceremo».
È stata una notte decisiva per la rivoluzione cominciata il 17 febbraio e da allora proseguita a fasi alterne. Gli spari si erano rarefatti al momento dell’iftar, la cena al tramonto dopo il digiuno quotidiano nel mese di Ramadan. Ma poi erano ripresi intensi. Si era parlato di sbarchi di ribelli dal mare in arrivo da Misurata. I giornalisti occidentali rimasti all’hotel Rixos, nella capitale, raccontavano del fuggi fuggi degli uomini del regime, inclusa la guardia presidenziale di Gheddafi. Il loro comandante si è consegnato ai ribelli. Ma vi erano anche resoconti di irriducibili minacciosi e di forti esplosioni un po’ ovunque. Gli insorti da Bengasi dicevano di temere che il Raìs possa davvero far bruciare la città , usando armi chimiche. Tradimento, fedeltà e coraggio: gli ingredienti del tragico autunno del Colonnello, che era in procinto di celebrare i 42 anni della sua dittatura. «Siamo alla fine. Il regime ha le ore contate», proclamavano i ribelli.
Ieri mattina ci eravamo uniti alle colonne di ribelli che da Zintan e Zawiya cercavano di stringere l’assedio verso la cittadina di Aziziya, per coordinarsi con le brigate che arrivavano dal Sud. «Il piano è quello di cercare di spingere verso la capitale assieme», spiegava un ufficiale. Dopo l’avanzata per una ventina di chilometri, però, c’era stato l’ordine del ritiro. «Troppo difficile. Le truppe di Gheddafi sono appostate su alcune alture con i lanciamissili. La Nato ci ha chiesto di ripiegare per bombardare senza correre il rischio di colpire i nostri», spiegavano nelle retrovie. Si era ripreso allora ad avanzare dalla parte di Zawiya, lungo la linea costiera. Per diverse ore si udivano gli scoppi dei Grad, i missili tipo katiuscia che i soldati di Gheddafi usano anche contro le zone civili. Le due Brigate di Zintan, la «Juma Hussain» e la «Mohammad Madani» attendevano con pazienza. «Ci siamo addestrati a fronteggiare i Grad. Hanno una portata di 30 chilometri. Il trucco è avanzare rapidi verso le loro batterie prima che sparino», raccontava Wahib, 21 anni, studente di medicina, che da 4 mesi fa il soldato.
Nel piccolo ospedale a pochi chilometri di distanza c’erano quattro morti: due ribelli e due soldati di Gheddafi. Di questi ultimi hanno trovato le carte d’identità . Uno aveva la faccia da ragazzino, residente a Tripoli, anno di nascita: 1990. L’altro aveva la pelle scura. «È un mercenario africano. Gheddafi li usa tutto il tempo», accusavano alcuni miliziani nei corridoi. Ma non c’erano prove. Potrebbe essere un membro delle tribù libiche del deserto, che costituiscono il fior fiore dei fedelissimi del Colonnello. All’uscita dall’edificio, una colonna di auto portava i prigionieri di guerra appena catturati ai centri di detenzione a Zintan. Giovani ammassati nei cassoni di due camioncini aperti, mani legate dietro la schiena, occhi bendati con stracci lerci.
È in questo tratto di strada, una decina di chilometri a sud di Zawiya, che abbiamo incontrato decine di auto di profughi. Ne abbiamo contate circa 200 tra le 11 di mattina e mezzogiorno. I veicoli erano riconoscibili immediatamente, anche da lontano: sospensioni abbassate sotto il peso di famiglie intere assiepate negli abitacoli con temperature che sfioravano i 40 gradi, coperte e taniche di benzina legate alla rinfusa sui portapacchi, carrozzerie impolverate. A raccontare ciò che spesso non volevano dire a parole erano la stanchezza e la tensione dipinte sui volti. Erano i profughi che fuggivano alla battaglia finale della «Rivoluzione del 17 settembre». Tanti si dicevano a favore dei ribelli. «Stiamo vincendo. Ma devo portare la mia famiglia in salvo. Poi tornerò a combattere», dicevano i giovani e gli uomini al volante sporgendo il braccio con la «V» di vittoria. Altri erano restii. I pro-Gheddafi in genere preferivano non farsi intervistare. Oppure se ne andavano rapidi con un solo commento: «A Tripoli c’è il caos. È una catastrofe». In comune avevano comunque un elemento: la paura. «La città è diventata un grande campo di battaglia. Ci sono cecchini sui tetti. Le truppe di Gheddafi sparano con i bazooka pesanti contro le auto sospette. Nei negozi i beni di prima necessità scarseggiano, l’energia elettrica arriva a singhiozzo. L’immondizia sparsa nelle strade emana un olezzo insopportabile», raccontava un giovane architetto in fuga con la moglie e i tre figli. Non voleva dire il nome: «Parte della mia famiglia resta in città . Non voglio essere identificato in alcun modo». Un anziano con la barba bianca e il turbante dei religiosi raccontava che nel suo quartiere, Tagiura, uno dei più «caldi» alla periferia, i ribelli «ormai da ore» avevano scacciato le truppe di Gheddafi. La famiglia assiepata in una minuscola utilitaria Honda col bagagliaio stracolmo e due meloni maturi in cima alla pila di sacchi e valigie raccontava di «terribili rumori di bombe e spari». Spiegava l’uomo alla guida, la barba sfatta, profondi cerchi scuri attorno agli occhi: «Non volevamo partire. Ma la situazione sembra precipitare d’ora in ora. Stamattina c’è stata una sorta di piccola tregua. Ci siamo detti: ora o mai più».
Decisivo per l’offensiva da Ovest è stato il pomeriggio di ieri. La Nato aveva bombardato con rinnovata insistenza le basi militari e Bab al Aziziya, il quartier generale di Gheddafi già ridotto in macerie. I ribelli si sono fermati di fronte alla resistenza delle artiglierie dei lealisti presso il villaggio di Maya, 35 chilometri da Tripoli. Ma alcune colonne lo hanno sorpassato dalla parte delle montagne e sono riuscite a catturare la base della 32esima brigata, meglio nota come «Brigata Khamis», dal nome del suo comandante, il 27enne figlio militare di Gheddafi. Un momento cruciale. La Brigata era una delle meglio organizzate e più temute dai ribelli. Nella base hanno trovato armi e munizioni in grandi quantità . E con il morale alle stelle, sono riusciti a raggiungere prima del tramonto i sobborghi di Tripoli. Tra i primi a cadere nelle mani della rivoluzione, i quartieri di Tagiura, Suk al Jumaa e Al Sabaa. Tra le ultime conquiste, l’aeroporto internazionale e l’autostrada verso la Tunisia. Sembra che anche la base dell’aviazione militare, la celebre Mitiga, sia caduta. Persino il portavoce del regime Moussa Ibrahim è stato costretto ad ammettere che alcune zone erano «fuori controllo». Anche per lui sarà presto il momento delle grandi scelte: morire a fianco di Gheddafi? Scappare per cercare di mettere in salvo la giovane moglie di origine tedesca e il loro bambino di neppure cinque anni? A Tripoli il tragico corale d’infiniti drammi personali racconta le fasi finali della guerra civile.
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