Il contrappasso del Cavaliere: deve aumentare le odiate tasse

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ROMA — Non più tardi del 3 agosto, davanti ai deputati, il Cavaliere prometteva «un regime di tassazione più favorevole alle famiglie, al lavoro e all’impresa». Promessa sempre più pallida e sbiadita, ora mandata in frantumi dalla lettera della Banca centrale europea. Che ha consegnato Silvio Berlusconi alla legge del contrappasso: quella per cui l’uomo che ha vinto tre elezioni dichiarando guerra alle tasse garantendo che non avrebbe mai messo «le mani nelle tasche degli italiani», ora in quelle tasche dovrà  rovistarci a fondo.
I maligni diranno adesso che almeno poteva risparmiarselo. Ieri lo attaccava perfino Libero, quotidiano berlusconiano a quattro ruote motrici. La parola «Tradimento» campeggiava sul titolo in prima pagina. E dentro, la pugnalata: un manifesto del Cavaliere sorridente (era la campagna elettorale del 2001) a fianco della scritta «Meno tasse per tutti».
Già , il mitico 2001. Ricordate il contratto con gli italiani firmato a Porta a Porta? «Abbattimento della pressione fiscale», c’era scritto testualmente, «con l’esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui; con la riduzione al 23% per i redditi fino a 200 milioni di lire annui; con la riduzione al 33% per i redditi sopra i 200 milioni di lire annui».
Sette anni prima aveva sbaragliato la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto garantendo la rivoluzione dell’aliquota unica al 33% sognata da Antonio Martino. Ma il suo governo era durato troppo poco. Senza perdersi d’animo, dall’opposizione aveva continuato a martellare. Fino a giustificare gli evasori «per necessità ». «Ieri sono stato dal mio dentista e ho visto che paga il 63% di imposte e allora non volete che chi è sottoposto a un furto così non si ingegni? È legittima difesa», raccontò a Repubblica il 15 ottobre del 2000. Giusto qualche mese prima di tornare al governo, contratto con gli italiani in tasca.
Da allora è stata una sfilza incredibile di propositi e annunci fantastici. Ma solo quelli. Come la volta, era il 5 luglio del 2002, che dichiarò: «Il Consiglio dei ministri che approverà  oggi il Dpef darà  anche il via libera alla riduzione delle tasse più grande della storia della Repubblica». O quando rivelò a Porta a Porta: «La pressione fiscale globale sulle famiglie si è già  ridotta del 7,5%». Da dove arrivasse quella stima, non si è mai capito. Ma poco importava. Due mesi più tardi, a un convegno della Confindustria, si lanciò in una metafora calcistica: «Ora che l’economia verrà  rilanciata con un deciso taglio delle imposte, l’Italia tornerà  a vincere come il Milan, che vince e diverte». Intanto sventolava spavaldo il contratto firmato da Bruno Vespa: «Ho la speranza di arrivare al 23% e al 33% entro la fine della legislatura. Se non ci riuscirò non mi ricandido».
Non ci riuscì, e a giugno del 2004, puntando l’indice contro gli alleati, ringhiava: «Se avessi avuto il 51% avrei già  ridotto le tasse». Ma si ricandidò, dopo aver ottenuto dal Tesoro di Domenico Siniscalco una spuntatina all’Irpef, con l’aliquota massima ridotta al 43%: dieci punti sopra il fatidico 33% promesso. Taglio peraltro compensato da rincari di bolli e balzelli vari.
La campagna elettorale incombeva e a Porta a Porta sparò: «Abbiamo ridotto la pressione fiscale dal 45% al 40,6%». La sparata non fu sufficiente. Romano Prodi vinse e rimodulò le aliquote abbattendo i benefici concessi ai più abbienti: venne crocifisso dalla destra e dai giornali vicini a Berlusconi. Su uno di questi comparve perfino un orologino che ogni giorno segnava la progressione del debito pubblico. E meno male che nessun giornale ha fatto lo stesso da quando, nel 2008, il Cavaliere è tornato a Palazzo Chigi. Promettendo, per la terza volta, di tagliare le tasse.
Sappiamo com’è andata. La crisi americana, la recessione, la speculazione… «Nessuno più di me vuole ridurre le tasse», andava ripetendo ancora qualche mese fa. Mentre insieme a Umberto Bossi cercava di convincere Tremonti a usare il bisturi, dopo la batosta presa alle amministrative. Ma contro l’evidenza dei numeri. L’Istat dice che nel nostro Paese la pressione fiscale aveva raggiunto nel 2009 un livello del 43,2%, quasi quattro punti sopra la media europea. Per una ragione precisa: secondo la Banca d’Italia negli ultimi dieci anni la spesa corrente al netto degli interessi sul debito pubblico è salita di oltre sei punti sul Prodotto interno lordo, passando dal 37,6% al 43,8% fra il 2001 e il 2010. Con gli interessi, aveva raggiunto nel 2009 il suo massimo storico: 48,2%. Dal 2000 al 2008 il volume della spesa corrente è salito del 37,8%, quasi 16 punti più dell’inflazione (21,9%). Insomma, un macigno insormontabile, accumulato proprio durante gli anni del governo Berlusconi. Il quale, in un momento di realismo, il 13 gennaio del 2010, ha confessato forse per la prima volta: «La crisi non permette nessuna possibilità  di riduzione delle imposte». Ma aumentarle, però… E tassare le rendite finanziarie come voleva fare Prodi, poi…


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