Gli Usa in crisi spaventano Fiat “Dobbiamo guardare alla Cina”
TORINO – La Cina e la Russia tornano nel mirino di Sergio Marchionne. La crisi americana, che tanti guai sta creando al suo amico Barack Obama, impone una rapida correzione di rotta all’amministratore delegato di Fiat-Chrysler con una accelerata alla ricerca di nuovi accordi e nuovi mercati.
A convincerlo contribuisce la situazione italiana ed europea le cui prospettive sono tutt’altro che rassicuranti. Senza contare che da qualche giorno il Lingotto è sull’ottovolante di una Borsa fuori controllo: ieri Fiat spa ha perduto l’8,23 e Fiat Industrial l’8,26 per cento, lasciando sul campo in una settimana 2 e 3 punti. Nel pieno dell’estate 2011, l’ad deve rivedere la sua strategia e adeguarla a una situazione che era fuori da ogni previsione. Con qualche ricaduta anche sui già difficili rapporti con i sindacati italiani.
Ancora qualche settimana fa, Marchionne aveva puntato sull’America intesa come area del Nafta (Usa, Canada e Messico) con l’apporto determinante dei mercati del Sudamerica, Brasile in testa. Dopo avere conquistato il 53% della società di Auburn Hills, il manager era convinto che il successo americano avesse una vita più lunga. O per lo meno gli garantisse un margine di tempo sufficiente per completare l’integrazione industriale tra Torino e Detroit e studiare le nuove tappe.
I numeri gli davano ragione. Con meno di 40 mila dipendenti sparsi dal Canada all’Argentina, Marchionne ha ottenuto nel secondo trimestre del 2011 un risultato di gran lunga migliore di quello messo assieme in Italia e nel resto dell’Europa, Polonia e Turchia compresi, dove i dipendenti sono 46 mila di cui 34 mila nel nostro Paese. In un solo mese, la controllata americana ha realizzato un risultato netto di 155 milioni contro i 175 che la Fiat ha realizzato, ma in tre mesi. Con queste premesse, Marchionne poteva dire che «quest’anno l’auto americana guadagnerà più di quella italiana». Insomma il sorpasso della controllata sulla controllante.
Sarà sempre così? Il peso di Chrysler rispetto a Fiat è destinato ad aumentare, ma da qualche giorno quella prospettiva non è scontata come sembrava. L’America è nella bufera e quando ne uscirà nulla sarà più come prima. Resiste sempre la grande “provincia” sudamericana dominata dalla Fiat brasiliana dove Marchionne ha piazzato uno dei suoi quattro proconsoli (gli altri tre sono in Europa, Usa e Asia). Ma il mercato dell’automobile Usa non sembra offrire grandi sbocchi e già da tempo quello italiano ed europeo stentano a uscire dalla crisi.
In Italia si va di male in peggio anche perché la manovra del governo ha picchiato sull’auto gelando i segnali peraltro incerti di ripresa.
Ecco perché Marchionne, ferma la sua predilezione per l’America, sta pensando di riattivare i canali con l’altra faccia del Pianeta facendo subito rotta verso l’Asia e la Russia, i cui mercati, nel disastro generale, promettono di crescere. «Il fatto che i costruttori cinesi possano esportare è un rischio enorme per europei e americani, anche se si trattasse di un 10 per cento della loro produzione», ha osservato. Ed ha aggiunto: «Poiché i cinesi intendono passare da una produzione per il mercato interno all’export, non possiamo farci trovare impreparati».
Forte dell’integrazione con Chrysler, ora Marchionne deve assicurarsi che entro l’anno diventi operativa la joint-venture con i cinesi di Guangzhou che, grazie a un investimento complessivo di 400 milioni, prevede la produzione di 140 mila vetture l’anno (si parte con il modello Linea) e 220 mila motori. In Russia, dopo lo sfortunato “fidanzamento” con Severstal, Marchionne ha espresso al governo la disponibilità a creare un impianto da 200 mila vetture all’anno. Ora deve premere perché arrivi da Mosca la risposta. Il più presto possibile.
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