A Bernanke resta solo l’arma del credito facile e la speculazione fa festa a Wall Street

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NEW YORK. È una diagnosi allarmante a cui segue una cura vecchia. Eppure Wall Street la celebra in una festa coi fuochi d’artificio. Il ribaltamento clamoroso cancella due terzi delle perdite del “lunedì nero”.
È una giornata dalla conclusione folle, dominata da calcoli speculativi vicini al gioco d’azzardo: la Borsa americana festeggia la prospettiva di un credito facile a perdita d’occhio, per altri due anni, una politica che in passato ha beneficiato il sistema finanziario senza ricadute sull’economia reale. Il divorzio tra finanza ed economia reale non è mai stato così visibile come nel teatro dell’assurdo andato in scena a Wall Street. La Federal Reserve, con un comunicato diffuso alle 14.20 di New York (le 20.20 in Italia) ha dato il via alle “montagne russe” dei mercati, annunciando che terrà  il tasso d’interesse inchiodato a quota zero fino alla metà  del 2013. E’ l’ammissione che fino a quella data non ci sarà  una ripresa americana, altrimenti non si giustificherebbe un costo del denaro eccezionalmente basso, che fu deciso come misura d’emergenza all’apice della crisi del 2008. Arriva così dalla banca centrale degli Stati Uniti la conferma che il vero problema è la recessione: è in agguato, assai più probabile di prima se non certa. E di fatto, se non vivessimo sotto la dittatura del Pil (cresciuto, anche se di un impercettibile 0,8%, nel primo semestre i quest’anno), altri indicatori ben più significativi per l’economia reale (occupazione, stipendi, consumi) direbbero che la recessione del 2008 non è mai finita, stiamo dentro un ciclo di Grande Contrazione che dura già  da tre anni. E ne durerà  altri due, secondo l’annuncio dato ieri dalla Fed. Il peggio è che a quella diagnosi non segue un rimedio innovativo. Promettere “tasso zero” per altri due anni a che serve? Il costo del denaro è sceso a questo minimo storico dal dicembre 2008, senza effetti miracolosi. I tassi sui mutui sono già  bassissimi, ma non hanno rilanciato gli acquisti di case: sul mercato immobiliare incombe una montagna di abitazioni invendute, pignorate, in lista d’attesa per le aste giudiziarie.
Tuttavia Wall Street dopo un disorientamento iniziale è schizzata all’insù con una spettacolare rimonta nell’ultima ora di contrattazioni. Il dollaro ha perso quota sull’euro, perché una politica monetaria così “generosa” non può che indebolire la moneta, e favorire le esportazioni Usa. C’è stata di nuovo la corsa ai titoli del Tesoro, quelli a breve scadenza: il Treasury Bond biennale è stato sommerso di acquisti e il suo rendimento è sceso al minimo-record dello 0,177%. Anche questa è la conferma che gli investitori vedono la recessione in arrivo, mentre è diventata una non-notizia il downgrading del debito sovrano degli Stati Uniti.
Nella fragorosa ripresa finale di Wall Street, alcuni hanno anche voluto speculare sul passaggio del comunicato della Federal Reserve dove la banca centrale promette che è «preparata a usare strumenti aggiuntivi» per scongiurare una recessione. Come un tossicodipendente in crisi d’astinenza, Wall Street ha una tremenda voglia di ricominciare la terapìa interrotta dalla Fed appena due mesi fa: la pompa della liquidità . La chiamano “quantitative easing”, avviene attraverso massicci acquisti di titoli di Stato sui mercati, serve a inondare le banche di cash. La Fed vi ha già  fatto ricorso due volte, subito dopo il crac sistemico dell’autunno 2008, poi ancora alla fine del 2010 e fino alla primavera di quest’anno. E’ una terapia che ha fatto comodo ai banchieri. Forse ha evitato disastri peggiori anche nell’economia reale. Di certo non è stata risolutiva, visto che la disoccupazione americana resta sopra il 9%. E’ una droga dei mercati finanziari, e si capisce che Wall Street faccia “il tifo” per un ripristino di quelle operazioni. Ma una parte della liquidità  generata dalla Fed in quel modo era finita all’estero. Per mancanza di opportunità  di investimento negli Stati Uniti, tanti fondi del quantitative easing erano andati ad alimentare la speculazione nelle Borse brasiliana, cinese, indiana, negli acquisti di oro, franco svizzero, dollari australiani e canadesi. Non a caso quella politica del quantitative easing era stata oggetto di critiche virulente da parte della Cina e del Brasile. Il governo di Pechino l’ha interpretata come una deliberata strategia di creazione di moneta finalizzata al deprezzamento del dollaro, per restituire il debito estero degli Stati Uniti in “carta straccia”. Alla fine neppure quelle prolungate operazioni straordinarie di acquisto di titoli pubblici erano riuscite a creare inflazione e a risvegliare dal suo “sciopero degli acquisti” il consumatore americano. Se i posti di lavoro non aumentano, se i salari sono fermi, le famiglie americane ne traggono la conclusione più razionale: tagliano i consumi e stanno finalmente riscoprendo la virtù obbligata del risparmio. Il credito facile non serve, quando “il cavallo non beve”. Sull’economia reale pesa la paralisi dell’altro strumento principe della politica economica: la leva del bilancio pubblico è quasi bloccata, perché ogni manovra di rilancio proposta da Barack Obama rischia d’insabbiarsi nell’opposizione della maggioranza repubblicana alla Camera. Ma ieri in un’ora di euforìa finale Wall Street ha deciso – come altre volte – d’ignorare l’economia reale e badare solo a se stessa.


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