Gli ultimi numeri di una strage

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 Due numeri sul cemento che sigilla i loro loculi: 1 e 14. Sepolti senza nome, senza identità  i due extracomunitari massacrati sul barcone arrivato a Lampedusa lo scorso primo agosto con 25 morti a bordo. Volevano uscire dalla stiva che si stava riempiendo di gas di scarico del motore per non morire asfissiati dentro quella botola di due metri quadrati in cui la guardia costiera di Lampedusa ha rinvenuto venticinque cadaveri. Molti dei 271 extracomunitari arrivati in condizioni disperate ma, almeno loro, vivi, testimoniarono subito che a quei poveretti era stato impedito anche con le bastonate sulla testa di uscire dalla stiva e arrivare sopracoperta.

Quei venticinque corpi (tra i quali quello di una donna), dentro sacchi plastificati, allineati lungo il molo di Lampedusa la mattina del primo agosto sono stati adesso tutti sepolti in sei cimiteri di altrettanti comuni della provincia di Agrigento. Sei sono nel cimitero di Lampedusa, anche per loro solo dei numeri sulla lapide. Mancavano ancora i due disgraziati che presentavano con più evidenza degli altri i segni di violente percosse e su cui è stata compiuta pertanto un’accurata autopsia all’ospedale San Giovanni di Dio di Agrigento. Nel pomeriggio di lunedì due bare della protezione civile sono arrivate al cimitero di Favara, centro agricolo a dieci chilometri da Agrigento. Un Dio lo avevano pure loro e così l’imam Yssine Rifi prima e il sacerdote cattolico don Carmelo La Magra hanno pregato e benedetto quelle due bare. Il consiglio comunale e il Sindaco di Favara hanno portato due corone di fiori. Un centinaio di persone hanno seguito la cerimonia funebre e accompagnato le bare sino alla tumulazione.
Sono adesso una dozzina i migranti sepolti a Favara. Tutti senza nome. Quelli di oggi si chiamano 1 e 14, cioè i numeri che corrispondono alle schede segnaletiche preparate dalla polizia scientifica di Agrigento. Un nome invece ce l’hanno i sei scafisti (quattro somali, un marocchino e un siriano) che secondo gli investigatori hanno condotto il barcone e che avrebbero preso a bastonate sul cranio i due migranti sepolti adesso a Favara. L’accusa per loro è di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte conseguente ad altro reato, mentre per due di loro è scattata anche l’accusa di omicidio. Secondo quanto hanno riferito gli extracomunitari giunti sull’isola, durante quella drammatica traversata, ai ventitre morti occorre aggiungere un profugo che era riuscito ad uscire dalla stiva era stato gettato in mare.
Altri testimoni ricoverati al Poliambulatorio di Agrigento hanno raccontato di decine di morti, gettati in mare per alleggerire il peso dell’imbarcazione. Sarebbero morti per la fame e la sete dopo essere rimasti in mare per quattro giorni.
Gli scafisti sono adesso reclusi nel carcere Petrusa, alle porte di Favara. In questo centro dell’estremo Sud esattamente sessant’anni fa il regista Pietro Germi girava Il cammino della speranza, il film neorealista che racconta delle disgrazie e della povertà  di un gruppo di minatori siciliani di una zolfara di Favara e del loro tragico esodo verso la Francia. Abbandonati a Roma dal mafioso che li guidava, pochi varcheranno le Alpi. Per la medesima speranza di lavoro e di pace oggi sono arrivati a Favara altri disgraziati, ma dentro due bare della protezione civile.


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