La guerra solitaria dei Wang sull’isola contro il Giappone
PECHINO. Quando li hanno trovati, erano sull’attenti. Wang Jicai e la moglie, come ogni mattina da venticinque anni, stavano assistendo all’alzabandiera. Indossavano la vecchia mimetica dell’Esercito di liberazione del popolo ed erano pronti a dare l’allarme, in caso di invasione dal Giappone. Un registratore diffondeva l’inno nazionale e il comandante della coppia s’era permesso di appoggiare sopra un tronco l’arma d’ordinanza, ormai sprovvista di proiettili. La sua signora, unica recluta, impugnava la corda del vessillo rosso. Mai un contatto con Pechino, dal 1987: eppure decisi a difendere la patria dalle «potenze straniere», soli contro tutti, ignari che i «tutti» abbiano ormai tutt’altre preoccupazioni.
I reporter di un giornale del Guangdong, sbarcati sull’isola di Kaishan per un servizio sulla pesca nel Mar Giallo, hanno temuto di essere caduti nella trappola di un reality di Hong Kong. Accertato che anche in Cina la realtà può ancora prevalere sulla finzione, hanno raccontato la storia degli «ultimi eroi della resistenza» e i coniugi Wang sono finiti sul giornale del partito, «chiaro esempio di fedeltà ai valori nazionali». Peccato che i due, lasciati invecchiare con l’incubo di uno sbarco dei nemici del Novecento, ignorassero che nel frattempo il Giappone è diventato un simbolo di pace e che ormai è il riarmo di Pechino a spaventare le ex potenze coloniali.
Wang Jicai, sommariamente informato sulle più recenti svolte della storia, non ha però accettato di abbandonare l’avamposto: «Questo mare – ha detto con un certo senso della profezia – sta tornando caldo. Senza un ordine dall’alto non smetterò di difendere il nostro territorio». Il comando per ora non è arrivato, ma dalla capitale della nazione che sta rimettendo in riga il mondo è partito un primo segno d’attenzione: i coniugi Wang sono stati nominati «lavoratori modello», premio «per l’abnegazione al senso del dovere in prima linea».
A Kaishan il signor Wang approdò a 27 anni. Mai visto il mare, mai messo piede su un’isola, tantomeno su un grumo di scogli più piccolo di due campi da calcio, dodici miglia al largo del porto di Lianyungang. Non sapeva che su quella roccia, nel 1938, fosse stata scritta una pagina gloriosa del suo Paese. Qui, alla vigilia della seconda guerra mondiale, si arrestò l’avanzata di Tokyo, decisa a trasformare la costa orientale cinese nella piattaforma per il commercio di carbone, ferro e grano in partenza per la Germania di Hitler.
Otto anni dopo Mao costruì il mito di Kaishan, «l’isola della rinascita», e per i coniugi Wang, ancora estranei al mondo, s’è compiuto il destino. Lui fu convocato nel settembre 1987, quando il pianeta era spaccato tra due blocchi e l’Urss fingeva di restare una minaccia. I quattro candidati che l’avevano preceduto non erano resistiti sull’isola per più di dieci giorni. «Il governo mi chiese di custodire l’avamposto – racconta oggi – e ho voluto mantenere la promessa». Ha lasciato casa con il sacco del riso e della biancheria e non è più tornato. A Kaishan non esiste corrente elettrica, non ci sono telefono e tivù, Internet è parola sconosciuta e la forza del mare può spingere per settimane l’isola nel nulla. Eppure anche qui l’89 è stato l’anno della svolta: la moglie di Wang Jicai, maestra elementare, prese con sé la figlia appena nata e decise di andare a trovare il marito. «Ho capito – ha detto alla tivù di Stato – che non aveva nessuno che si prendesse cura di lui».
È rimasta, nominata sentinella all’istante. Attorno il pianeta diventava un altro, gli imperi crollavano e il comunismo si convertiva al business, il Giappone esauriva la boom del dopoguerra e la Cina ritrovava l’energia imperiale. Troppo perché qualcuno di ricordasse di Kaishan e dei suoi ultimi custodi. Un quarto di secolo senza una parola, obbedienti all’antico imperativo di «dare l’allarme se arriva il nemico».
Il soldato Wang ha aiutato la moglie a partorire altri due figli e ha capito che era il caso di arrangiarsi: in licenza, autoconcessa, pesca di gamberi e capesante. «Senza quello – s’è scusato – saremmo morti». Perché anche la paga è d’epoca: 570 euro all’anno e in cinque non si vive nemmeno su un’isola deserta. Crostacei e molluschi ne garantiscono altrettanti, scambiati in generi di prima necessità con i pescherecci del continente. I combattenti estremi dell’integrità territoriale della Cina confessano un solo cruccio: «Abbiamo debiti». Anche loro, che hanno fatto la fine dei giapponesi alla deriva dopo la guerra di Corea, senza che nessuno abbia avuto il coraggio di avvisarli. Preferiscono mantenere una promessa, navigare immobili sul loro fronte che non c’è e «difendere la Cina» che per venticinque anni hanno immaginato. Senza curarsi di Internet e della trascurabile invenzione di un marchingegno, chiamato radar.
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