Il Mezzogiorno della Svimez

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 La grande stampa accoglie la pubblicazione annuale del Rapporto sulla economia del Mezzogiorno della Svimez (Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno) in generale con attenzione solo ai dati o ai fatti più eclatanti e per contro con scarso interesse ai processi di fondo che sono alla base di quei dati e che i volumi analizzano in dettaglio. Così, qualche anno addietro tutti si resero conto con sorpresa – grazie alla documentazione e alle analisi della Svimez – della ripresa della emigrazione dalle regioni del Sud (circa ottocentomila partenze negli ultimi dieci anni). Per quel che riguarda il rapporto di quest’anno il dato eclatante ripreso dalla stampa è che nel Mezzogiorno due giovani su tre sono disoccupati.

La ripresa della emigrazione non è – né la Svimez pretendeva che lo fosse – una novità : i rapporti dei dieci anni precedenti avevano già  documentato questa ripresa indicando un saldo migratorio di settanta o ottanta mila persone all’anno. Ma i rapporti Svimez, tranne casi eccezionali, non godono di grande attenzione, o perlomeno dell’attenzione che meritano. E questo perché le analisi e le relative implicazioni in termini di politica economica sono effettivamente un po’ controcorrente.
La Svimez, fin dai tempi di Pasquale Saraceno, il suo presidente storico, non si è mai entusiasmata per i miti correnti sulla situazione del Mezzogiorno, i suoi problemi e le possibili soluzioni. E negli ultimi trent’anni di miti ‘meridonalisti’ ne abbiamo subiti tanti. Dalle cretinate sul piccolo imprenditore emergente, alle banalità  sullo sviluppo a macchia di leopardo, ai distretti industriali trovati nel Mezzogiorno dappertutto (in particolare dove non c’erano) al grande ruolo della economia sommersa – con l’inutile, anzi dannoso, ruolo della Commissione per l’emersione (che non ha fatto emergere un bel nulla) – alla eliminazione dell’intervento pubblico per dare spazio al libero gioco del mercato, alle interpretazioni antropologiche e politologiche del mancato sviluppo e l’individuazione della causa principale nella classe dirigente locale – tesi quest’ultima sbandierata ai quattro venti in particolare dai rappresentanti della classe drigente medesima.
Così, di recente, l’Associazione non ha voluto ascoltare le sirene del federalismo (“federalsimo fiscale” nella dizione corrente) sottolineandone i rischi e indicando sempre interventi e prospettive di altra natura per lo sviluppo del Mezzogiorno e la riduzione del divario Nord-Sud (accresciutosi – come documentato – nell’ultimo decennio). Infatti, tornando ai disoccupati, nel rapporto è ben evidenziato come le cifre attuali non siano solo l’effetto della grande crisi finanziaria internazionale, bensì anche e soprattutto il risultato di scelte di politica economica che hanno penalizzato il Mezzogiorno negli ultimi anni. Ed è bene perciò tenere conto di entrambi gli aspetti – quello congiunturale e quello di più lungo periodo, nonché, ovviamente, dei loro intrecci.
Consideriamo gli effetti della crisi. La nota che anticipa le considerazioni generali del Rapporto di quest’anno (e che sarà  distribuito a settembre) inizia come segue: «La grave recessione che ha colpito l’economia mondiale nel biennio 2008-2009 si è abbattuta pesantemente sull’intera economia nazionale, e ha mostrato i suoi effetti più pesanti, in termini di impatto sociale sui redditi delle famiglie e sull’occupazione, nelle regioni del Mezzogiorno. La lenta e difficile fuoriuscita dalla crisi dell’Italia ha interessato soprattutto le aree del Nord del Paese mentre il Sud, dopo la flessione del 2009, appare nel 2010 ancora in stagnazione». C’è dunque sia un effetto particolarmente grave della crisi, sia soprattutto la mancata ripresa. E non per caso: la ripresa si esprime con gli investimenti e questi nel Mezzogiorno sono stati particolarmente carenti. Infatti gli investimenti fissi lordi nel Centro Nord sono aumentati – segno indubbio di ripresa – del 3,5%, mentre l’aumento nel Mezzogiorno non ha raggiunto nemmeno l’1%.
Da notare che questa carenza non ha riguardato solo gli investimenti privati ma anche e soprattutto quelli pubblici: insomma su questo piano c’è stata discriminazione. In maniera molto asciutta la Svimez si esprime così: «Su tale risultato ha pesato sia la contrazione degli investimenti privati, conseguenza della crisi, sia soprattutto la forte contrazione degli investimenti pubblici, conseguenza delle manovre di finanza pubblica e della forte riduzione delle risorse in conto capitale dei fondi aggiuntivi per il Mezzogiorno (Fondo aree sottoutilizzate). Il risultato è ovvio: stagnazione o riduzione dei consumi e peggioramento delle condizioni di vita. La spesa delle famiglie (che esprime la ricchezza o la povertà  della gente) è diminuita per effetto della crisi e della mancata politica di sviluppo attuale e precedente. Infatti le difficoltà  delle famiglie «vanno al di là  della congiuntura ma sembrano ulteriormente aggravarsi di recente in conseguenza delle consistenti perdite di posti di lavoro, che al Sud… spesso riguardano l’unico percettore di reddito all’interno del nucleo familiare». E ciò significa che nella disoccupazione meridionale di oggi bisogna contare non solo i «due giovani su tre», ma anche molti adulti capofamiglia.
A questo proposito giova ricordare che i dati eclatanti sulla disoccupazione nel Mezzogiorno e in particolare su quella giovanile sono tutt’altro che una novità  dell’oggi. E, detto per inciso, a questi vanno aggiunti anche coloro, soprattutto donne, che escono dal mercato del lavoro per scoraggiamento. Se i dati di oggi si spiegano almeno parzialmente con la crisi degli anni precedenti, al 2008 meritano spiegazioni che riguardano la politica economica. Scartata ormai da tutti la tesi della rigidità  dell’offerta di lavoro, per lo meno da quando sono riprese le emigrazioni, bisogna ricercare le cause nell’economia e soprattutto nella politica economica. Tra la fine degli anni ’90 e la prima metà  degli anni 2000 anche il Mezzogiorno aveva goduto in parte della crescita di occupazione legata al lavoro precario e in generale alla cattiva occupazione. Ora non c’è più neanche questo; i contratti precari di 5 o 6 anni addietro non si sono trasformati in occupazione stabile ma al contrario hanno dato adito a ulteriore disoccupazione.
Passiamo, per concludere, alle proposte sul tappeto e ai loro prevedibili effetti. «Se in un quadro di questo genere – si legge nel Rapporto – si inserisce anche la prospettiva di un avvio del federalismo fiscale che tende, per altri versi, a determinare effetti redistributivi parimenti sfavorevoli, la tenuta della società  meridionale potrebbe rapidamente essere messa a dura prova». L’affermazione può apparire perentoria. Anzi, più precisamente, lo è. Ma essa è surrogata da tutta una vasta serie di studi condotti da studiosi meridionali da Domenicoantonio Fausto allo stesso Adriano Giannola (attualmente presidente della Svimez,) che mostrano – dati alla mano – i costi che il Mezzogiorno pagherebbe nel caso di realizzazione piena del paventato federalismo fiscale, così come cantato non solo dalla Lega e dal Pdl, ma anche da vasti settori del Partito democratico. E proprio una delle rivista della Svimez, la Rivista Giuridica del Mezzogiorno ha ospitato articoli con questo orientamento. Ciò che si mette in luce non è tanto la mancanza di senso di solidarietà  nazionale che ha ispirato i provvedimenti in direzione del federalismo fiscale, quanto il carattere discriminatorio che essi assumono tendendo a concentrare la ricchezza nella parte del paese già  ora più ricca. E già  da ora meccanismi di finanza pubblica distribuiscono risorse a vantaggio nel Nord.
Che fare dunque? Secondo la Svimez «nella crisi il Sud ha pagato già  un prezzo molto alto con tagli significativi alle risorse per investimenti; in generale è assolutamente prioritario arrestare la deriva ormai decennale di un Paese che sta consumando il proprio stock di dotazioni produttive. A questo fine va ripristinata la responsabilità  attiva dell’operatore pubblico … La ridefinizione di una politica di sviluppo deve essere una priorità  nazionale complessiva che non può essere affidata alla spontanea allocazione del mercato ma rimanda ad interventi di politica industriale attiva volti a modificare nei prossimi anni la specializzazione produttiva del Paese». Insomma uguale, uguale l’opposto di quello che viene solitamente proposto.


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