L’umiliazione dell’Impero Americano e il dollaro non è più padrone del mondo

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IL “D-Day” alla rovescia è dunque arrivato. Non il default, la bancarotta, l’apocalisse, troppo temuta e troppo annunciata, ma il più sottile e velenoso downgrading, la retrocessione del credito di un’America che non aveva mai conosciuto questa umiliazione politica. Dal 1837, quando lo battezzò così lo scrittore Washington Irving, la sua moneta era l’Almighty Dollar, il dollaro onnipotente, almighty proprio come l’Iddio Onnipotente. Non lo è più.
Sempreverde, immutabile se non per piccole modifiche grafiche, mai fuori corso, il dollaro e dunque il credito assoluto e virginale del quale il governo emittente godeva, è quello che nessuna portaerei, missile, sottomarino, grattacielo hanno mai rappresentato: la bandiera del “Secolo degli Stati Uniti”. Per almeno due generazioni, dal 1944, tutto ciò che un viaggiatore doveva portare in tasca erano dollari, in contanti o nei mitici traveler’s cheque, sapendo di essere onorato e accolto ovunque con ingordigia ed entusiasmo. Dai vicoli dei suk arabi ai villaggi dell’Unione Sovietica, dagli sportelli di cambio come dai cambiavalute clandestini disposti a rischiare la galera o la vita pur di ottenerli, il “credito”, che è sinonimo di “fede”, di “credere”, del dollaro era assoluto.
E ora, in un’altra delle estati maledette che puntualmente si abbattono su un mondo che soltanto in Italia si crede in ferie dalla storia, l’onnipotente viene fatto scendere dal suo trono sotto il vacillante pontificato del primo papa nero della chiesa laica americana, Barack Obama. E’ una piccola retrocessione, un mezzo punto, dalle conseguenza reali probabilmente modeste, decisa soltanto da Standard & Poor’s una delle varie agenzie che danno i voti alle monete e al debito delle nazioni. Ma un Dio che dopo secoli di devozione diventa un po’ meno Dio, può ancora essere l’Almighty? La vestale delle valute, l’America, ha perduto la propria verginità .
Nella storia dell’ascesa e del declino degli imperi, il tramonto delle monete che essi esprimono, dai sesterzi ai talleri, dai franchi alla sterlina britannica, sono sempre il sintomo che un’epoca sta finendo. E sono quasi sempre le guerre, e la degenerazione delle classi dirigenti politiche o delle corti imperiali, le prime cause di questi crepuscoli. E’ stato proprio lo spettacolo indecoroso offerto dal potere americano, la Casa Bianca nella propria titubante e compromissoria latitanza, poi il Parlamento, ostaggio di una minoranza di legionari ribelli dell’ideologia anti statale (e anti obamiana) a indurre la Standard & Poor’s all’eresia del downgrading, della retrocessione del dio dollaro. Non è del green back, del biglietto verde che qualcuno comincia a non fidarsi più. E’ della classe politica che lo governa e lo emette, come sta accadendo in Europa, senza distinzioni di colore ideologico, che i poliziotti dei voti (spesso per primi sospetti e corrotti) non si fidano più.
Ma sullo sfondo dei grandi drammi c’è sempre la guerra, il motore primo. Furono le guerre a fare la potenza del dollaro nel XX secolo, culminata nel trionfo della Seconda Guerra Mondiale che spazzò via la sterlina dell’Impero Britannico e lo impose come perno dell’intero sistema monetario mondiale con il diktat di Bretton Woods e l’ossigeno del Piano Marshall all’Europa, e all’Italia, boccheggianti. E sono state la guerra nel Sud Est Asiatico o oggi in Iraq e in Afghanistan a picconarlo e sbalzarlo da trono. Fu proprio quarant’anni esatti or sono, nell’agosto del 1971 mentre infuriava la guerra in Vietnam e in Cambogia, che Richard Nixon si vide costretto a dichiarare la fine del “Novus Ordo Seclorum”, come proclama la scritta massonicamente ispirata sulle banconote Usa, il collasso del nuovo ordine finanziario globale durato in realtà  meno di 30 anni, dichiarando il dollaro non più convertibile automaticamente in oro. Ed è in questo agosto del 2011, nel decimo anniversario della distruzione delle Due Torri, il massimo monumento alla superbia babilonese della finanza americana, che Obama si vede degradare il credito, una manifestazione non cruenta, ma simbolicamente devastante di un crollo. Per la nazione e per lui.
La irresponsabile pantomima della cifre e delle «migliaia di miliardi» cancellati o reinseriti nella “legge anti default” inscenata da un Parlamento di inetti, di deboli, di fanatici che hanno dimenticato la strada maestra delle fortune imperiali americane – il pragmatismo – ha prodotto il totale disprezzo dell’opinione pubblica per i propri eletti, con un indice di gradimento del 6% nei sondaggi. Praticamente quasi zero, tenendo conto del margine di errore statistico. E ha fatto temere agli analisti che questo equipaggio ai comandi non abbia più la fiducia popolare e non sia semplicemente in grado di governare la nave in gran tempesta.
Le proteste dell’Amministrazione Obama, che ha subito rimproverato alla S&P errori contabili nel calcolo delle passività , suonano patetiche come le lagnanze dei politicanti quando lamentano di essere stati citati «fuori contesto». Nei fatti, la sola e potente giustificazione di Obama il timido, che ormai molti paragonano all’onesto, sfortunato e infine disfatto Jimmy Carter costretto all’onta delle file inaudite per il pieno di benzina e all’atroce sberleffo di Khomeini, sarebbe la disastrose eredità  ricevuta dal predecessore. La voragine di debiti si aprì con Bush l’Incosciente, che, dopo avere scassato i bilanci federali dissipando l’attivo che suo padre George il Vecchio, aumentando le tasse, e poi Clinton gli avevano lasciato aggiunse i costi di una guerra che, aveva promesso, «si sarebbe pagata da sola». E sta costando invece migliaia di miliardi, senza luce alla fine del tunnel.
Ma negli Stati Uniti il miserando giochetto dello scarica barile non funziona. It happened on your watch si dice, qui, è accaduto mentre eri di guardia tu e tu ne pagherai le conseguenze. Nixon, incolpevole, passò alla storia come il distruttore del sistema tolemaico di cambi fissi, imposto dagli americani nella Bretton Woods del 1944, che cominciò a demolire la posizione del dollaro come moneta di riserva mondiale, immenso vantaggio per gli Usa. Carter sarà  per sempre colui che dimostrò la vulnerabilità  e l’impotenza della superpotenza di fronte alle sfide del terrorismo religioso nazional-fondamentalista. Bush il Giovane credette a caro prezzo di vite e di tesoro nell’allucinazione del “Nuovo Secolo Americano” caro ai neo conservatori, fondato sulla proiezione globale della forza militare, naturalmente «a fin di bene». Obama non sarà  il Romolo Augustolo del Nuovo Impero d’Occidente, ma ha visto qualcosa che nessuno aveva prima mai visto: i “barbari” delle agenzie di rating sfondare i lontani confini del credito.
Ancora non si capisce a favore di chi sia avvenuto questo sfondamento del regno del dollaro, tra l’anemia perniciosa dell’euro e la improponibilità  di una sostituzione con la valuta cinese, il Renminbi, grottescamente e artificialmente sottovalutato dai dirigenti del partito comunista e non trattabile sui mercati. Ma ora almeno si capisce meglio perché la minoranza dei fanatici del Tea Party, gli ultrà  della destra, abbiano esitato a rivendicare la vittoria politica sui moderati del proprio partito repubblicano e sull’odiato “usurpatore” Barack Obama. Essi sapevano, e ora vedono, che per ferire il sovrano, avrebbero colpito l’America. Un regicidio di ideologi che comincia a somigliare al suicidio di una nazione. Il tramonto degli imperi parte sempre dal loro interno.


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