“Basta cure salvavita”, il giudice dice sì
ROMA – Anna vuole essere sicura che non le faranno trasfusioni, che non le bucheranno la gola per farla respirare se non avrà le parole per rifiutare. Non vuole terapie salvavita che prolunghino l’agonia se per lei non ci sarà più speranza. E il giudice tutelare di Treviso le ha dato ragione. Con una sentenza che rilancia la polemica sul testamento biologico, sulla libertà di scelta per cure e nel fine vita.
Trevigiana, 48 anni, testimone di Geova, affetta da una malattia degenerativa, Anna ha lucidamente detto no, una volta ricoverata in fin di vita in ospedale, a sacche di sangue e tracheotomia. Ma per essere sicura che il suo volere sia rispettato in futuro, se sarà priva di coscienza o forse temendo passi la legge sul testamento biologico che considera non vincolanti la volontà del paziente, si è rivolta ad un giudice.
E il giudice di Treviso le ha dato ragione, le ha riconosciuto il diritto di dire in futuro stop ai farmaci salvavita, basandosi sul codice deontologico dei medici e sui principi, accolti anche della Cassazione, secondo cui il consenso del paziente rappresenta un presupposto indispensabile per qualsiasi intervento medico. Non solo: ha affidato al marito il ruolo di amministratore di sostegno consentendo di poter sospendere, in caso di un nuovo crollo della donna e di una sua impossibilità a comunicare, le terapie salvavita.
Ancora una volta un cittadino chiede aiuto ai tribunali per garantirsi libertà di scelta. Come Welby, che imprigionato dalla Sla per anni lottò prima di vedersi riconosciuto nelle aule di giustizia il diritto a smettere le cure, ad interrompere la ventilazione forzata e «andarsene da una vita che non ritengo degna di essere vissuta». Come Englaro: più di seimila giorni prima di vedere definitivamente riconosciuta la volontà della figlia Eluana, in stato vegetativo dopo un incidente stradale, di non restare attaccata alle macchine. Sempre con una sentenza.
E, come allora, la sentenza divide, scatena polemiche incrociate tra governo e opposizione, tra diverse concezioni di vita e diritti individuali in un paese spaccato sul fine vita. Diviso sulla legge Calabrò in via di approvazione che non giudica vincolanti le volontà del paziente, né gli consente di rinunciare idratazione e nutrizione nella dichiarazione anticipata di trattamento.
Immediate le reazioni del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e del sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella che denunciano: «attraverso il giudice si vuol introdurre il suicidio assistito e programmato. Mentre la Cgil medici e il senatore Pd Ignazio Marino sono pronti a ribattere che invece «qui c’è solo il rispetto delle volontà anticipate del paziente, ignorate da una legge che criminalizza i medici che rischiano di essere accusati di omicidio se seguono il volere del malato».
Secondo il sottosegretario Eugenia Roccella: «non c’era alcun bisogno del giudice: con la legge di oggi come con quella Calabrò sulle dichiarazioni anticipate, una persona lucida, in grado di intendere e di volere, è assolutamente libera di decidere responsabilmente di sé, ha diritto a rinunciare alle cure, come la donna che morì non volendosi far tagliare la gamba in cancrena. Il problema riguarda un futuro nel quale la persona non sia più vigile».
Ecco, il nodo è proprio questo, ribatte Ignazio Marino, senatore Pd: «Al governo giocano con le parole e la vita altrui: dicono che uno è libero di rinunciare alle cure ma non appena perde conoscenza la sua volontà diventa non vincolante. Una legge assurda». Ed è forse proprio per scavalcare, per aprirsi una via alternativa, nel caso della probabile futura legge, che è stata fatta la richiesta al giudice di Treviso.
Se il testo Calabrò sul fine vita fosse approvato anche alla Camera, il giudice tutelare dovrebbe infatti provvedere alla revoca o modifica dei poteri nei confronti del marito amministratore. Ma, dice il radicale Raffaele Ferraro, «sarebbe possibile impugnare il provvedimento di fronte alla Corte Costituzionale» anche alla luce di discordanze rispetto a normative europee.
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