I cento profughi esiliati sulle Alpi tra freddo, malattie e solitudine
MONTECAMPIONE (BRESCIA) – Il brutto è quando viene sera e la temperatura scende in picchiata fino a sfiorare lo zero. Loro si aggirano tra i prati spelacchiati, ciabatte e maglietta, infreddoliti, un giaccone di fortuna o una coperta sulle spalle, lo sguardo confuso che si infrange sul muro delle alpi orobiche. Alcuni, non tutti ne sono provvisti, si infilano calze e berretta, e fa un certo effetto vederli rincasare mestamente in questo megaresidence a forma di esse, un serpentone color terra bruciata che di inverno e d’estate – ce ne sono anche adesso, in un’altra ala – ospita decine di famiglie amanti della montagna. La vita di un profugo libico a 1.800 metri d’altezza può non essere proprio agevole. Se in più sei qui, nel cuore della val Camonica, da 36 giorni e non hai contatti con nessuno e non sai fino a quando dovrai starci, né se e quando ti daranno un permesso di soggiorno provvisorio per chiedere asilo politico, allora tutto diventa più complicato. Erano novantanove e adesso sono cento. Cento numeri. Perché l’unico documento di cui sono in possesso è l’«identificazione di sbarco», un foglio A4 timbrato dalla questura di Agrigento con su nome cognome foto data e orario di sbarco. Sono scappati dalla guerra in Libia e a bordo della carrette del mare approdati a Lampedusa. Tutti uomini. Il più giovane ha 16 anni, il più vecchio 45. Dodici nazionalità diverse: Sudan, Guinea, Mali, Togo, Senegal, Nigeria, Siria, Ghana, Gambia, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Ciad, Niger, Camerun. La loro storia italiana è un breve passaggio nel centro di accoglienza di Manduria, in Puglia, e poi quassù, tra le cime del comprensorio sciistico Montecampione, 60 chilometri di piste. Sono qui dal 25 giugno. Isolati. Li chiamano i rifugiati delle “Baite”, dal nome del residence. Una struttura un po’ fuori mano: il paese più vicino, Artogne, è a 10 chilometri. Il sindaco si sta dando da fare come può, dopodiché gli unici che seguono questa strana comunità forestiera sono una mezza dozzina di operatori e volontari sostenuti dalla Cgil di Brescia. Per vitto e alloggio il governo paga ai gestori (gruppo Yong, pubblicità sul sito della società Octotravel. it) e ai proprietari del residence 40 euro al giorno per ogni immigrato: fanno 4mila euro ogni 24 ore, più di 120 mila euro da quando i profughi sono giunti in alta quota. Le complicazioni non mancano. Non avendo la tempra dei camuni – il popolo che abitava la Val Camonica nell’età del ferro – e essendo privi di abbigliamento da montagna i rifugiati accusano problemi di salute. Dal raffreddore a traumi di natura psicologica. Tre sono stati operati di ernia inguinale. Non esiste un presidio medico fisso e la Croce Rossa arriverà solo alla fine di agosto. Per il momento c’è un medico dell’Asl, sale una volta alla settimana per le visite. In più, e questo è il punto, sembra che i libici siano destinati a rimanere qui ancora per molto. Le procedure cui devono essere sottoposti sono lentissime. «Solo una volta ammessi al riconoscimento potranno ottenere un permesso di soggiorno – spiegano Damiano Galletti e Clemente Elia della Camera del lavoro bresciana – . Poi verranno intervistati dalla Commissione territoriale della Protezione internazionale che dovrà decidere se accettare le domande. I tempi di attesa? Si parla di convocazioni programmate per il 2012…». Tra gli immigrati la tensione sta montando. Come se ci fosse bisogno di stressare la situazione, ci si è messa anche la Lega (la Val Camonica è il seggio elettorale di Bossi jr). Tre settimane fa ha cercato di caricare il malcontento della popolazione locale con una manifestazione. Un mezzo flop. I rifugiati della baita non l’hanno nemmeno saputo. Vivono fuori dal mondo. «Sono stanchi e si sentono abbandonati» – dice Marco Zanetta, uno degli operatori. Dalla Cgil lanciano l’allarme: «Se il governo non interviene finisce come a Bari o a Isola Capo Rizzuto».
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