Il presidente compromesso

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 NEW YORK. «Con compromessi come questo, chi ha bisogno di una resa?», «Un accordo terribile per evitare il caos», «Il minimo comun denominatore», «Obama cede su tutto», «Il presidente si arrende». Le grida di indignazione e di costernazione che hanno accolto l’annuncio dell’accordo raggiunto tra la Casa Bianca e i leader di entrambi gli schieramenti del Congresso per alzare il tetto del deficit Usa si avvertono molto prima di avventurarsi tra gli analisti e opinionisti dell’ala più progressista della sinistra americana.

Da Hendrik Herzberg sul New Yorker, all’editoriale del giorno sul New York Times cui faceva da pendant il commento all’economista, e Nobel, Paul Krugman, da Ezra Klein sul Washington Post al sito Daily Beast, lo scontento è dovunque, anche nei media più mainstream. E se contro John Boehner e lo spirito kamikaze dei teapartisti alla Camera si spendono frustrate, inutili, accuse di «radicalismo», «estremismo» e «irresponsabilità » (quando non si parla di «follia pura»), le ire più feroci sono dirette a Barack Obama, il presidente che – di fronte agli americani – si è fatto arbitro dello scontro tra repubblicani e democratici al Congresso, dopo aver stabilito delle regole di gioco che sfavorivano la sua squadra (sollevando la possibilità  dei tagli a Medicare, Social Security e Medicaid) e che, in chiusura di partita, ha ceduto anche sull’ultima linea di difesa rimasta – e cioè quella di accompagnare ai tagli della spesa un aumento delle tasse (per i molto ricchi).
«Il suo approccio ai vasti problemi economici del paese, è l’aspetto più deludente della sua presidenza», scrive Hendrik Herzberg che mette il dito anche sulla clamorosa gaffe comunicativa della Casa Bianca: «Obama ha permesso che il deficit e la riduzione del debito diventassero un’emergenza più importante della disoccupazione di massa».
Il New York Times avrebbe voluto che Obama dimostrasse «più nerbo» nelle trattative contro i repubblicani, «magari minacciando di usare poteri costituzionali straordinari per ignorare il tetto del debito qualora il Congresso fosse venuto meno alla responsabilità  di alzarlo».
«Obama continua a piegarsi davanti alle minacce dei repubblicani», ha scritto Krugman, che ha definito l’accordo «una catastrofe». «A dicembre i liberal conteranno sull’aiuto del presidente per difendere Medicaid e Medicare. Il che, disgraziatamente, oggi è diventata una prospettiva di cui aver paura», sostiene Michael Tomasky su The Daily Beast.
E non erano più generosi i deputati e i senatori democratici che Maureen Dowd citava sulla sua column domenicale. «Si è fatto definitivamente castrare dal Tea Party», «Una via di mezzo tra un professore pedante e un genitore severo», «Inetto alle trattative», «Si sta trasformando in Jimmy Carter davanti ai nostri occhi»… sono alcuni degli apprezzamenti raccolti (anonimamente) tra le file del partito di Obama dall’editorialista del New York Times.
Torna (di nuovo) spesso in scena anche il fantasma di Bill Clinton, la cui ritirata al centro, dopo un disastroso mid term, oggi viene paragonata a quella di Obama e resuscitata come un modello di moderazione e, soprattutto, di efficacia.
Chi infatti supponesse che la «malleabilità » del presidente Usa abbia incontrato, se non gratitudine, almeno un riscontro positivo presso i suoi avversari politici si sbaglia di grosso. «Una presidenza diminuita» è il titolo dell’editoriale dell’opinionista conservatore del New York Times Ross Douhtat. Con una scelta micidiale di aggettivo (è inammissibile nel credo dell’eccezionalismo americano) Fouad Ajami intitola il suo articolo sul Wall Street Journal,«Barack Obama il pessimista». Quasi peggio, David Brooks, il più ragionevole degli editorialisti conservatori del quotidiano di New York, che già  qualche giorno fa accusava Obama di essere un dilettante non all’altezza di gestire trattative tra i politici stagionati del Congresso.
«Un governo deve funzionare nei limiti dei suoi mezzi», come la tipica famiglia americana, ripeteva ieri mattina il consigliere di Obama David Plouffe cercando di vendere il deal, ottenuto dal suo presidente. La parola in sé – più «affare», «compromesso», che «accordo», nella sua traduzione italiana – dice già  molto sul risultato di questa trattativa. Purtroppo è anche una parola che suona stonata quando si parla leadership.


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