La nuova crisi riparte dagli USA

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Il detonatore questa volta non è il sistema bancario i «derivati» e l’imbroglio dei mutui subprime, ma la crisi fiscale dello stato (per dirla alla O’Connor) che mina le fondamenta degli stati e rischia di scatenare una nuova crisi globale, una double dip evocata ma anche esorcizzata.
Quello che sta accadendo negli Usa non ha bisogno di commenti. Dimostra, semmai, l’impotenza di Obama costretto a estenuanti trattative con i repubblicani e soprattutto con l’ala più conservatrice che spera di buttare a mare, il prossimo anno, il primo presidente di colore degli Stati uniti. Negli Usa è soprattutto in atto uno scontro politico che assomiglia molto a quanto successo in Italia con la manovra correttiva per la quale il governo proponeva solo una «manutenzione» dei conti per il 2011 e il 2012, in modo da poter affrontare in pace le elezioni che, se perse, avrebbero lasciato agli eredi di Berlusconi il compito di una stangata enorme.
Obama. al contrario di Berlusconi, vuole una manovra corposa immediata per affrontare con più tranquillità  le presidenziali del prossimo anno. I repubblicani però rispondono picche: vogliono ora una «manovrina» per costringere Obama a varare un provvedimento gravoso e antipopolare in coincidenza con le elezioni presidenziali. Come sempre, però, dietro i giochi politici si nasconde una divergenza anche ideologica sui contenuti della politica economica. Con una avvertenza: il sistema statunitense determina il debito complessivo in maniera macchinosa: non in percentuale del Pil, ma in cifra assoluta, stabilita per legge. E sull’innalzamento di questa cifra del debito (che sarà  raggiunta a fine mese) si sta litigando: Obama lo vorrebbe più ampio, i repubblicani molto più ristretto per seguitare a stare sul collo dell’amministrazione Obama alla Camera, dove hanno la maggioranza. Ma anche il tetto al debito (che in ogni caso è destinato a aumentare in cifra assoluta) appare un pretesto: quello che divide i democratici e repubblicani è la politica economica da seguire per realizzare la riduzione del deficit. E su questo punto le differenze sono abissali.
Obama, infatti, vuole perseguire una politica più progressista annunciando tagli alla spesa (anche quella sociale) ma anche ai privilegi imposti fin dai tempi di Bush che varò una riforma fiscale con la quale il 90% degli sgravi è finito nelle mani dei più ricchi. Insomma, il presidente insiste per una politica di tagli accompagnata da un aumento della pressione fiscale su chi di tasse ne paga (legittimamente) poche. Al contrario i repubblicani insistono per tagli profondi che colpirebbero il welfare lasciando immutata la pressione fiscale in base al principio (falso) che se si pagano poche tasse la gente ha più soldi da spendere per i consumi. In questo modo favorendo la ripresa.
I repubblicani però dimenticano che l’esplosione del debito publico è iniziata con l’amministrazione di Bush padre, mentre ai tempi di Clinton il bilancio era addirittura in attivo. E dimenticano che sono stati loro, con le scelte di politica imperiale (Iraq e Afganistan) a dare il via alla escalation del deficit e del debito. E sempre loro, con i tagli al welfare, hanno innescato la spirale di speculazione finanziaria che, causa la pessima distribuzione dei redditi, ha gonfiato la bolla che una volta esplosa ha messo in crisi il sistema globale. Di più: è stato George Bush a dare il via al gigantesco intervento di salvataggio del sistema finanziario Usa che ha ridato fiato alle banche, ma non all’economia reale. Mantenendo così immutata (al contrario di quanto era accaduto con Roosvelt nel ’29) la distribuzione dei redditi. Una situazione alla quale Obama è riuscito solo a mettere delle «pezze» e non amodificare radicalmente.
Certo, alla fine tra repubblicani e democratici un accodo si troverà . Molti siti Internet commentano la situzione scrivendo che siamo di fronte a una grande «moina», cioè a un gioco politico. L’impressione, però, è che l’accordo sarà  al ribasso: un brutto compromesso che servirà  solamente a evitare la riduzione del rating degli Usa con tutte le conseguenze facilmente intuibili sul piano dei tassi di interesse (destinati a crescere) e di crescita del Pil destinata, invece, a rallentare. Tutto questo che conseguenze avrà  sull’Italia?
Molte e gravi: un paese con un debito pari al 120% del Pil è fortemente dipendente dagli investitori internazionali che per acquistare titoli del debito pubblico italiano chiederanno tassi di interesse più alti, come hanno dimostrato anche le aste di ieri. La crescita degli interessi, a sua volta, produrra un aumento del debito, vanificando gli sforzi di risanamento. E nuove stangate produrrano un ulteriore rallentamento della crescita del Pil, frenando l’occupazione già  a livelli infimi e drammatici. Il tutto, c’è da scommeterci, rilanciando le proposte più bieche – come negli Usa – di un ulteriore dimagrimento dello stato sociale.
Insomma, i tempi cupi sono dietro l’angolo e non è ben chiaro chi riuscirà  a salvare l’Italia.


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