LIBIA. Il clamoroso fiasco della Nato (e dell’Italia)
E se la guerra in Afghanistan dopo dieci anni – già più lunga di quella del Vietnam – presenta un esito molto incerto, per usare un eufemismo, con i taleban passati per forza di cose dal ruolo di nemici da distruggere a quello di interlocutori ineludibili, la guerra di Libia dopo cinque mesi, qualunque sia il suo sbocco finale, costituisce senza tema di smentite un fallimento colossale della Nato. Della Nato e dei principali componenti della coalizione dei volenterosi che, trincerati dietro il pretesto umanitario della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza – «proteggere i civili» -, si sono buttati a corpo morto in un avventura dall’inconfondbile tanfo neo-coloniale, per giocarsi sul terreno facile dei diritti umani, della libertà , della democrazia, della primavera araba, il nuovo assetto del petrolio libico.
Parzialmente defilati gli Stati uniti di Obama (vorrei ma non posso), che ha già troppe gatte da pelare per lanciarsi in una terza guerra contro un paese islamico e potrebbe perfino trarre vantaggi concreti nel prossimo futuro da questa sua posizione di rincalzo, chi sta portando il peso del fiasco sono le più sguaiate fra le ballerine della prima fila e della prima ora – la Francia di Sarkozy e l’Inghilterra di Cameron – e la terza, la più goffa, che avrebbe voluto essere allo stesso tempo in prima fila e dietro le quinte, l’Italia dei Berlusconi e dei Frattini ma, purtroppo, anche del presidente Napolitano.
Più che una guerra umanitaria quella di Francia e Inghilterra rimanda irresistibilmente all’avventura del ’56 contro l’Egitto di Nasser.
Sarkozy aveva bisogno di farsi perdonare le liaisons dangerouses sue e dei suoi ministri con il tunisino Ben Ali; Cameron aveva bisogno di farsi perdonare l’addestramento da parte delle Sas britanniche della forze speciali saudite – rivelato dall’Observer – impegnate a reprimere le pericolose donne al volante per le strade di Riyadh ma soprattutto le proteste democratiche nel Bahrein, un link difficile da conciliare con il conclamato sostegno alle primavere arabe.
Berlusconi era riluttante, sia per decenza dopo i recenti baciamano a Gheddafi sia per business dopo gli accordi sostanziosi, sia per i trascorsi dell’Italia, con tanto di gas e campi di sterminio, sulla quarta sponda. Ma poi ha subito ceduto, comprendosi dietro la foglia di fico del Consiglio di sicurezza, di cui la Nato sembra diventata l’agenzia militare.
Tutti sembravano o volevano fra credere che la campagna libica fosse un capitolo facile e trionfale della primavera araba che in Tunisia e Egitto aveva spazzato via vecchi residuati bellici; che anche Gheddafi sarebbe stato cancellato in due-e-due-quattro dall’ondata «democratica» levatasi dall’indocile Cirenaica. Nessuno dubitava che in Libia sarebbe tutto finito presto e bene. Nessun dubbio, neanche quando i servizi francesi, dopo una visita a Bengasi e Tripoli, scrivevano, con qualche sorpresa, che la rivolta libica «non è né democratica né spontanea»; neanche quando si scoprì che i principali personaggi del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi, ormai riconosciuti quasi unanimemente come il «governo legittimo della nuova Libia» erano o vecchi arnesi riciclati del gheddafismo, citati più volte da Amnesty, o esponenti di quel radicalismo islamico che Gheddafi aveva schiacciato con i suoi metodi spicci e che l’occidente vede come il cancro.
Quattro o cinque mesi di bombardamenti a tappeto su Tripoli, nella speranza di beccare finalmente Gheddafi e risolvere il problema alla radice (e senza curarsi troppo delle vittime civili di parte tripolina: «tragici errori», «effetti collaterali», come in Serbia). Quotidiani proclami del segretario Nato Rasmussen e del frivolo Frattini ad assicurare che «Gheddafi è finito», «il cerchio si stringe», «è questione di giorni». La finta di non vedere che gli insorti di Bengasi da soli non ce la faranno mai, che la guerra è impantanata, che – piaccio o no – Gheddafi non è solo repressione brutale ma ha, ancora, un seguito sociale, probabilmente alimentato dalla campagna aerea dei «crociati» che risveglia nei libici ricordi mai cancellati. La stupidaggine del procuratore della Corte penale internazionale, l’argentino Moreno Ocampo, di chiedere un mandato di arresto per Gheddafi, così di precludere in pratica qualsiasi ipotesi di soluzione negoziata. I patetici annunci degli insorti sull’imminenza della spallata finale per «liberare» Tripoli. La sufficienza per gli sforzi dell’Unione africana (e della Turchia) impegnata nella ricerca di una soluzione negoziata, la scarsa o nulla considerazione per le riserve esplicite di Russia e Cina sull’interpretazione «estensiva» data dall’occidente alla risoluzione Onu. Ora Sarkozy, Cameron, Rasmussen, Hillary e Frattini non sanno più che pesci pigliare. O decidono di scendere a terra con le truppe e mandare «the boots on the ground», ipotesi proibita dalla risoluzione Onu e sconsigliabile vista la piega presa dalle cose, o devono trovare una soluzione che salvi la faccia.
Difficile, però, a questo punto. Dopo aver detto e ripetuto, ogni giorno, che Gheddafi se ne deve andare dal potere e dalla Libia, che deve finire in ceppi alla Cpi dell’Aja, adesso dicono di aver affidato al mediatore Onu al Khatib, un giordano, l’incarico di presentare a Gheddafi un piano che prevede cessate-il-fuoco, un governo di transizione paritario (senza Gheddafi), un processo di riconciliazione, elezioni di una costituente, una costituzione. Ma con due novità , enormi: una, che non ci sarebbe più la condizione previa, sine qua non, di un Gheddafi fuori dal potere e che la sua uscita di scena dovrebbe essere parte del processo negoziale; due, che nessuno si opporrebbe più a quello a cui si sono opposti fino a ieri: che Gheddafi e figli possano restare in Libia una volta concluso il processo. Un percorso molto accidentato. Ma l’unico percorribile. Perché né la Nato né, tantomeno, gli insorti, mostrano di potercela fare.
Qualunque sia l’epilogo, il fallimento della Nato resta, clamoroso. E resta il discorso, ancora tutto da fare, sulle primavere arabe. Se e quanto hanno vinto, chi e come le hanno ingabbiate.
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Inuovi profeti della rivoluzione non somigliano più a Che Guevara. Non pensano che il potere nasca dalla canna del fucile. Semmai da twitter e dai cellulari. Il loro riferimento non sono più Lenin o Mao, e nemmeno Khomeini. Sono Gandhi, Aung San Su Kyi, Nelson Mandela. Predicano e fomentano la ribellione e la disobbedienza civile, non la guerra civile. Sono l’incubo dei dittatori di lungo corso, si sono rivelati capaci, contro ogni previsione, di scuotere e far crollare come castelli di sabbia regimi che sembravano di ferro. La loro “Internazionale” non ha nessun “centro”. Non è riconducibile a nessuna delle ideologie “forti” che avevano segnato il Novecento e nemmeno ai sussulti nazionalistici e religiosi che poi le hanno soppiantate. Non hanno mai preteso di “esportare” alcunché, nemmeno la democrazia. E comunque non alla maniera dei nostalgici di Bush.