Obama con il cerino in mano

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 Sabato sera Obama era stato perentorio: «prima dell’apertura di Wall street di lunedì dovranno arrivare le risposte alla riduzione del debito». Ma risposte non ne sono arrivate: non c’è accordo tra repubblicani (che hanno la maggioranza alla camera) e democratici (che controllano il senato). A far superare le divergenze non sono servite neppure le notizie arrivate dai mercati asiatici e da quelli europei tutti in forte ribasso per il timore del «default» del debito sovrano della maggiore potenza economica mondiale. Intanto ieri il Fondo monetario ha lanciato un appello a maggioranza e opposizione di fare presto perché «è urgente aumentare il tetto del debito e raggiungere un accordo su un ampio piano di risanamento dei conti di medio termine».
Le trattative nel week end tra democratici e repubblicani sono state intense, ma si sono chiuse con un nulla di fatto. Se questa situazione durasse fino al 2 agosto (in particolare, se non si troverà  un accordo per alzare il tetto del debito pubblico) verrebbero sospesi tutti (o quasi) i pagamenti federali a cominciare dal rimborso dei bond in scadenza, al mancato pagamento degli interessi, delle pensioni e di un po’ tutto il welfare.
Quelle che vorrebbero approvare i due schieramenti sono manovre incompatibili che, come tali, non hanno la possibilità  di arrivare all’approvazione finale del Congresso e essere firmate da Barack Obama. Al di là  delle differenze sostanziali, c’è un aspetto politico difficilmente superabile: i repubblicani stanno giocando sporco e propongono solo una piccola manovra per arrivare alla fine dell’anno e costringere i democratici a una correzione dei conti «lacrime e sangue» per il 2012, cioè per cercare di bloccare la possibile rielezione di Obama alle presidenziali del prossimo anno. Il piano sostenuto da John Boehner, portavoce dei repubblicani alla camera, prevede un’azione in due tempi: prima un taglio di spese limitato a mille miliardi, e un rialzo limitato del tetto del debito che consentirebbe al Tesoro di rifinanziarsi solo fino alla fine del 2011. Lo scontro finale sul risanamento viene così rinviato al prossimo anno, in piena campagna per l’elezione presidenziale.
Al Senato i democratici guidati da Harry Reid vogliono un piano diverso: 2.400 miliardi di tagli al deficit, con riduzioni delle spese sociali ma anche nuove entrate (in particolare l’eliminazione degli sgravi concessi da George Bush ai contribuenti più ricchi), per alzare il tetto del debito fino al 2013. Occorre ricordare che per il 2010 era stato fissato un tetto al debito pubblico di 14.290 miliardi, ma alla fine di quest’anno il debito dovrebbe salire senza interventi correttivi a quasi 15.500 miliardi. Di qui la necessità  di varare un piano di tagli alle spese o di nuove entrate, ma anche quella di alzare il tetto del debito: se non avverrà  entro il 2 agosto, il Tesoro avrà  esaurito l’autorizzazione legale per emettere nuovi Bond da collocare tra gli investitori per rifinanziarsi e pagare stipendi, pensioni, cedole sui titoli già  in circolazione.
Oltretutto sugli Stati uniti pende la minaccia dell agenzie di rating che già  in settimana potrebbero declassare gli Usa con conseguenze pesanti sui tassi di interesse che dovrebbero essere pagati dal Tesoro. Senza contare che un aumento di mezzo punto dei tassi potrebbe provocare una minore crescita dello 0,5% del Pil. Una situazione nella quale non potrebbe intervenire neppure la Fed che si deve limitare a acquistare bond unicamente sul mercato.
Per evitare la paralisi e il «default» Bill Clinton ha suggerito a Obama di ricorrere a una legge di guerra che consente al presidente la facoltà  unilaterale di alzare il tetto del debito. Ma si tratta di una mossa azzardata: di fatto farebbe di Obama l’unico responsabile della crescita del debito che, invece, è iniziato a salire con le amministrazioni repubblicane. Basti ricordare che ai tempi di Clinton il bilancio si chiudeva addirittura in attivo.
Il default degli Stati Uniti sarebbe senza precedenti: bisogna risalire al ‘700 e all’800 per trovare alcuni casi di fughe dai Treasuries e da securities a stelle e strisce.
Secondo Mohamed ElErian, che dirige in Pimco il più grande fondo obbligazionario al mondo si sta preparando «il terreno politico a un compromesso di breve periodo» che danneggerà  i corsi azionari e il dollaro e lascerà  il rating americano «estremamente esposto a un pericoloso declassamento».
Ma cosa accadrà  in caso di default? A Wall Street è diffusa la convinzione che gli Usa darebbero priorità  al pagamento degli interessi, per minimizzare gli shock, ritardando il rispetto di altri obblighi, quali pensioni o stipendi federali. C’è però il rischio di una caduta della fiducia sul quale si regge il gigantesco mercato dei Treasuries americano. Inoltre i Treasuries costituiscono un pilastro del sistema finanziario globale: sono detenuti sotto forma di capitale dalle banche, servono da garanzia sui mercati dei derivati e hanno rappresentato l’investimento sicuro per eccellenza anche per le riserve valutarie di paesi come la Cina che ne ha 1.200 miliardi.


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