Le quattro lezioni dell’affaire DSK

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In primo luogo, poche cose sono perverse quanto un sistema giudiziario in cui la carica di procuratore è elettiva. Gli Stati Uniti lo ritengono il più democratico, in quanto assicura una politica penale consona ai desideri dei cittadini nel cui nome si pronunciano le sentenze.
Ma la Giustizia non è precisamente una questione di opinione, ancorché pubblica; deve basarsi sui principi e sulle norme del diritto, non sul sentimento popolare, inevitabilmente impregnato di pregiudizi, perennemente variabile, con la tendenza a designare un colpevole ad ogni costo, uno troppo povero o troppo ricco, troppo straniero o lontano dalle convenienze per non esserlo. Nel momento in cui è eletto, un procuratore deve far propri questi pregiudizi per farsi rieleggere, e diventare Zorro per aspirare ad altre cariche ancora più elevate. Ecco cos’è accaduto al procuratore Vance, brillante rampollo di buona famiglia ossessionato da ambizioni presidenziali come lo sono i tossici da altri tipi di droga.
Secondo insegnamento: è sempre pericoloso sovrapporre un dibattito generale a un caso giudiziario, singolare per definizione. È necessario denunciare la frequenza e la gravità  delle violenze inflitte alle donne, le molestie sessuali e il droit de cuissage (lo jus primae noctis, ndt) che certi uomini, approfittando della propria posizione gerarchica, continuano ad arrogarsi. E’ legittimo cogliere ogni occasione per puntare il dito contro queste realtà  inaccettabili, ma da qui a dimenticare l’esame spassionato dei fatti quando un uomo è accusato di stupro, da qui ad anteporre la difesa di una causa alla verità  c’è un passo da non compiere, se non si vuole cadere in una giustizia esemplare del tipo di quella praticata dai generali nelle trincee del 1914-18.
Terza lezione di questa sbandata internazionale: la precisione del linguaggio è indispensabile per mantenere la mente lucida. Se ciascuno – giornalisti in testa – avesse sempre badato a specificare che in presenza di un «accusato» e di una «denunciante» entrambi hanno lo stesso diritto a essere creduti, non si sarebbe arrivati a confondere emozione militante e codice penale, a contrapporre la compassione per la «presunta vittima» a un principio fondamentale, garante delle libertà  e troppo spesso ignorato in questa circostanza: quello della presunzione di innocenza. Oggi un atto di autocritica farebbe onore a molti presunti rispettabili.
Va poi rilevato un quarto insegnamento, non meno fondamentale, che emerge da questo deragliamento della Ragione. Non è vero che finora i media francese abbiano sbagliato strada rispettando il diritto degli eletti a una vita privata. Se da un lato la stampa ha il dovere – o quanto meno, lo avrebbe – di essere implacabile in presenza di errori o menzogne politiche di un dirigente, se è tenuta a denunciare favoritismi e conflitti di interesse, eventuali atti di corruzione e tutti i comportamenti contrari al perseguimento del bene pubblico, non dovrebbe però indugiare sulle infedeltà  coniugali, che riguardano solo l’interessato e la sua compagna di vita. Un giornalista non ha alcun titolo per proclamarsi custode di una non meglio definita virtù sessuale: fintanto che non nuocciono ad altri e non violano la legge, i comportamenti sessuali non devono rappresentare un criterio per giudicare un esponente politico, uomo o donna che sia, così come qualsivoglia altro individuo.
Churchill e Roosevelt, che hanno salvato il mondo dal nazismo, non sarebbero stati in condizioni di farlo se per giudicarli si fossero adottati i criteri degli avvocati della «trasparenza», poiché sul piano sessuale non erano irreprensibili; mentre al contrario, nessuno avrebbe potuto rivelare la benché minima liaison nella vita di Hitler, visto che non ne aveva. Chiunque ha diritto alla propria intimità , anche se riveste una carica elettiva. Un donnaiolo, anche se compulsivo, non è un potenziale stupratore; e sarebbe un bel guaio se la stampa europea si mettesse al passo con quella anglosassone, che ha rischiato di rovinare Bill Clinton dopo aver demolito Gary Hart, in nome di un asserito diritto di sapere tutto di tutti: di fatto, nient’altro che un ritorno all’inquisizione puritana.
Traduzione di Elisabetta Horvat


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