Nella testa del carnefice
Ai bersagli essenziali del terrorista americano Theodore Kaczinsky, la tecnologia e il “leftism”, Breivik affianca farraginosamente il multiculturalismo, il relativismo, l’Eurabia e l’acquiescenza all’Islam, e al richiamo a un’esistenza secondo natura l’appello ai crociati e ai loro orpelli e onorificenze. Kaczynski era – è, perché è vivo in una galera di cui sono state buttate via le chiavi – qualcosa di molto vicino a ciò che chiamiamo un genio, pazzia compresa, Breivik sembra piuttosto il breviario di una congerie indigesta di subculture mistiche e tecniche, le cui versioni spettacolari hanno avuto gran fortuna nei nostri anni. Se un tratto comune si vorrà trovare nel divario abissale fra l’originale e la copia, starà nel disastro cui comunque si condanna la pretesa di raddrizzare il “legno storto” dell’umanità . Per la lettura appropriata del manifesto di questo ripugnante assassino ci saranno tempo e competenze; e i competenti dovranno riconoscere che individui tronfi di essersi fatti da sé e della propria missione superiore sono pronti a mettere insieme gli ingredienti più ovvii e quelli più stravaganti, perché in loro le idee devono servire al fatto, e non viceversa. Perversione che Breivik vuole volgere a proprio favore quando comunica solennemente all’avvocato che la sua impresa è stata “atroce, ma necessaria”, e pretende di non amare la violenza, ma di sacrificarsi alla sua pratica per la causa superiore dell’ideale. Lo leggeranno con raccapriccio, il manifesto dell’assassino, quelli che, pensando dapprima a un terrorista islamista – com’era plausibile – si sono ubriacati dell’idea di farne ingrassare la propria intolleranza, e si ritrovano un compare di ideali ripugnanti. E quelli che come terrorista islamista l’hanno applaudito, e si ritrovano un criminale che, in odio a loro, fa strage del proprio paese e vi introduce il terrorismo – era infatti la prima volta della Norvegia.
Il punto che voglio piuttosto sottolineare è un altro. Breivik, autore di una premeditazione delle più lunghe e ripugnanti – vivere anni nell’aspettativa e nella preparazione scrupolosa di una strage di innocenti – ha preteso di allestire anche l’interpretazione autentica di sé e del proprio gesto, con la firma d’autore. Di indurre gli altri, le persone “normali” attonite al punto di cercare una spiegazione a ciò cui non deve andare che orrore e disprezzo, a cercarla nell’esegesi dei suoi scritti preventivi, e dei discorsi che ancora si dispone a fare, dal momento che ha voluto uscire vivo dal suo gran giorno. Non ho voglia di cadere in questa tentazione. È un disgustoso vigliacco. Ha scelto con cura l’isolotto tradizionale dei ragazzi vicini al partito del lavoro, qualunque simbolo vi voglia far vedere, perché era il posto in cui poteva ammazzare più impunemente, come una partita di caccia grossa in un pollaio. Altro che le “armi di distruzione di massa” che il suo manifesto insegna a impugnare. Una carneficina di ragazzi inermi da eseguire a mano libera. Era questa, la forza di uno contro centomila inetti, citata in esergo al suo testo deformando un pensatore liberale.
E ancora: ha scelto di non morire, o almeno non ha scelto di morire. Non perché non fosse pronto: un farabutto come lui va fiero di esser pronto a immolarsi quando mette in moto l’immolazione altrui. Ma lui non è un qualunque fanatico suicida, di quelli che si fanno il filmino con la benda prima di andare a farsi esplodere. Lui ha preferito vederlo di persona il film, la sua faccia al centro delle prime pagine del mondo. “Il più grande mostro della Norvegia dopo la seconda guerra mondiale”. L’aggettivo grande non si nega a nessuno. L’uomo del record. A Oklahoma City non erano mica morti uno a uno. Il suo testo non è dunque un “testamento ideologico”. E’ il discorso di un vanitoso all’ingrosso che parlerà ancora tanto, in un paese che non ha la pena di morte (né di diritto né di fatto) e nemmeno l’ergastolo.
Avete letto il racconto di uno dei ragazzi scampati, che l’ha implorato di risparmiarlo, e non sa se lui l’ha fatto deliberatamente, o per distrazione. Un brandello residuo di umanità , dirà qualcuno: al contrario, il perfezionamento della disumanità . L’onnipotenza di chi toglie la vita ha bisogno del suo complemento marginale, di concederla salva, una vita, a piacere. La pena massima per Breivik è di 21 anni, uscirebbe, male che vada, a 53. Farebbe bene a cercare nel prossimo lo sguardo del ragazzo graziato.
Bisogna conoscere quest’uomo, certo, perché non ce ne siano altri come lui. Ma il modo giusto per riconoscerlo è di guardarlo attraverso le sue giovani vittime. Gro Harlam Bruntland, gran donna che fu primo ministro e poi a capo dell’Organizzazione mondiale della sanità , ed era andata a parlare a Utoya coi giovani del campeggio poche ore prima del mattatoio, ha ricordato “quei giovani entusiasti, così preoccupati per la loro epoca, il loro paese e il mondo”. Ecco, quei giovani inermi così preoccupati per il mondo del tempo loro e nostro, questo crociato è andato a terrorizzare, scandalizzare e sterminare.
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