Passa la linea Maroni E il Capo diserta l’Aula

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MILANO— Sorride Roberto Maroni, è la sua giornata. Sorridono i deputati leghisti, lo spettro di presentarsi di fronte ai militanti con lo stigma di aver salvato l’insalvabile è scongiurato. E poi, almeno da un certo punto di vista, la macchina ha funzionato con la precisione di un orologio: sì all’arresto del pdl Alfonso Papa, no a quello dell’ex pd Alberto Tedesco. Sì per l’azzurro, a dimostrare che la casta non si autoassolve, no per il democratico a dimostrare che il Pd è più casta di tutti: e salva i suoi uomini a dispetto delle pubbliche dichiarazioni.
Mette il concetto in bella Roberto Castelli: «Il voto è la conferma della doppia morale della sinistra che vota contro gli avversari politici e salva i suoi sodali» . Aggiunge Giacomo Stucchi, influente deputato bergamasco: «Dopo il voto alla Camera nel Pd erano sconvolti, la faccia di Bersani era da vedere. Erano pronti con le torce e con i forconi a strillare alla casta. Ma al Senato, si è capito che la casta sono loro» .
 Peraltro, il viceministro alle Infrastrutture non perde a tempo a rilanciare. Con l’aggiunta di nuova benzina: a «La zanzara» su Radio 24 annuncia che non voterà  il rifinanziamento delle missioni militari all’estero che approda oggi in aula.
A La7, Castelli va oltre e aggiunge di essere pronto a fare un passo indietro: «Se il presidente Berlusconi riterrà  che la mia posizione è incompatibile con il governo, in meno di un minuto me ne vado via» . Ma questa, per la maggioranza, è la grana di oggi, tutta davanti. Per tornare a quella di ieri, formalmente la posizione del Carroccio alla Camera è stata perfettamente coerente: la Lega, attraverso il capogruppo Marco Reguzzoni, aveva annunciato voto favorevole all’arresto, sia pure con libertà  di coscienza. Lo stesso presidente dei deputati, come del resto Maroni e altri onorevoli leghisti, si era addirittura fatto fotografare con il dito sul tasto di sinistra, quello del sì. E dunque, Reguzzoni ostenta tranquillità , a dispetto delle nuvole nere che si addensano sul rapporto con il Pdl: «Alla Camera la Lega ha deciso di votare per l’arresto, e così è stato» . Eppure, la giornata di ieri sarà  ricordata per un altro motivo. A Montecitorio se ne ha una rappresentazione visibile, simbolica al punto da sembrare frutto di regia.
Umberto Bossi non si è presentato in aula («controlli medici» è la spiegazione ufficiale), Roberto Maroni non siede sui banchi del governo ma tra quelli dei deputati leghisti. Là  da dove parte la bordata di sì favorevoli all’arresto. Commenta il finiano Nino Lo Presti: «La politica italiana, dopo la giornata di oggi, non sarà  più la stessa, ma a cambiare definitivamente i connotati sarà  anche la Lega» . Di più: grazie «all’influenza dilagante del ministro dell’Interno, la nuova Lega ha decretato la fine dei suoi rapporti con il Pdl di Berlusconi, e dall’altro ha inferto una lezione al Pd, facendo valere i propri voti» .
Dentro il Pdl, i commenti sono furiosi. Se Berlusconi ha già  parlato della necessità  di un chiarimento con Bossi, un fedelissimo di primissima fascia ci va giù duro. «Maroni si è preso il partito, e non sarebbe accaduto se Bossi non avesse sottovalutato l’entità  dello scontro con Reguzzoni. Certo, qualche voto in libertà  è partito anche dagli ex An e da qualche anima bella che di politica capisce poco. Ma a farci il regalo, è stato Maroni» . C’è chi vede nel nuovo corso un rapido cambio degli assetti del governo. Ricordando l’endorsement dell’uomo del Viminale a favore di Angelino Alfano appena eletto segretario del Pdl, è un attimo prefigurare un nuovo esecutivo guidato dall’oggi (ancora) Guardasigilli con Roberto Maroni a fare da vicepremier tutt’altro che di rappresentanza. In realtà , a dar retta a chi con il ministro dell’Interno parla tutti i giorni, le cose non stanno proprio così.
 Oltre al mille volte ripetuto (ma vero) «Maroni non si metterà  mai contro Bossi» , ci sarebbe anche il fatto che— secondo i sostenitori di Maroni — Alfano sarebbe un tantino troppo cauto nell’indicare la direzione del nuovo corso, troppo disponibile a mettersi sulla scia dei desiderata berlusconiani e troppo timido nel prendere decisioni che diano il segno concreto della svolta. Insomma, il dado è tutt’altro che tratto.


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