Nigeria, stato di panico

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Chi può fugge, chi non può si barrica in casa e prega, mentre tutto va a fuoco. Maiduguri, capitale del Borno, nell’estremo nordest della Nigeria, si è quasi svuotata. E’ una città  in guerra. Migliaia di civili in fuga, l’esercito che dispone posti di blocco che sembrano più numerosi dei semafori, attentati che si succedono a distanza non più di giorni ma di ore. Qui è cominciata la sfida della setta radicale islamica di Boko Haram contro le istituzioni nigeriane e qui ha lasciato le sue ferite più profonde. L’università  (35 mila studenti) ha chiuso lunedì, dopo che si erano diffuse voci circa un imminente attentato contro la sede. Si sono visti invece gli uomini del Joint Military Task Force (Jmtf), una combat force precedentemente impiegata nella lotta contro il Mend nell’area del Delta del Niger. Ironia della sorte, l’operazione del Jmtf si chiama Restore Order ma ha prodotto solo il caos. I soldati hanno scatenato una caccia all’uomo su larga scala, casa per casa, in cerca di elementi della setta e dei loro fiancheggiatori. I civili scappano anche da loro. Non si contano più le testimonianze di uccisioni sommarie, saccheggi e taglieggi. Domenica 10, in un’operazione nei dintorni di Maiduguri, a Kalari, sobborgo di London Ciki, sarebbero stati uccisi 30 civili. “Dopo l’esplosione di una bomba, di notte, i militari sono arrivati a bordo di camion, sono entrati in tutte le case, hanno ucciso i nostri mariti, hanno fatto uscire le donne e i bambini e poi hanno dato fuoco alle nostre abitazioni”, ha raccontato Zara’u Musa, una testimone, al quotidiano Daily Trust.

A Kalari, le donne parlano ancora di Adhamu Abdullahi, un insegnante della scuola locale, rimasto ucciso durante l’operazione del Jmtf. “Non era un terrorista”, dicono in coro. Ma i militari non vanno per il sottile. Sono decine le vittime “accidentali”. La contabilità  ufficiale, che si riferisce allo scorso week end, parla di 41 morti: 11 membri di Boko Haram e 30 civili. Altre quattro persone sono morte martedì, dopo esser state colpite da proiettili negli scontri a fuoco tra esercito e miliziani. La situazione è tale che il governatore dell’Anambra, Peter Obi, da giorni minaccia di chiedere il rientro della popolazione del suo stato che si trova nelle aree di crisi e altrettanto ha fatto il suo omologo dell’Abia. Ma ormai è perfino difficile tracciare i confini delle zone problematiche, perché Boko Haram, da quando ha scatenato la nuova offensiva, pochi mesi fa, ha praticamente colpito in tutto il nord: nel Borno ma anche nel Bauchi, nel Kaduna, nel Katsina, nel Kebbi e anche nel Niger. Ad Abuja, dove i miliziani hanno già  fatto decine di vittime, è stata imposta la chiusura anticipata di parchi e locali come cinema, birrerie e pub. Ma l’angoscia è arrivata anche a Lagos, nell’estremo sudovest del Paese, dalla parte opposta rispetto a Maiduguri. Si è mossa anche l‘Arewa Consultative Forum, un’associazione politico-culturale che riunisce importanti personalità  politiche del nord del Paese (Arewa vuol dire settentrionale nella lingua Hausa, ndr), che ha chiesto al presidente Goodluck Jonathan di aprire dei canali per una trattativa, consapevoli che Boko Haram avrà  anche un’agenda religiosa e punterà  anche nominalmente all’irrigidimento della sharia già  in vigore i 12 stati, ma è andata crescendo grazie ai consensi che le sono arrivati da fasce della popolazione del nord musulmano, che dalla fine del governo dei generali sperimentano una forte marginalità  politica ed economica. Dopotutto, questo è il discorso di molti opinionisti, l’insurrezione armata del Mend, organizzazione attiva nel sud a prevalenza cristiana, nell’area del delta del Niger, fu affrontata da un presidente del nord, Omaru Yar’Adua, che nel 2009 offrì un’amnistia generale ai miliziani. Adesso potrebbe accadere lo stesso, che un presidente del sud riesca a interloquire con una milizia del nord. Ma occorre che Jonathan si sbrighi e soprattutto riporti all’ordine i suoi generali.

Perché la soluzione muscolare non sembra pagare. Gli apparati di sicurezza nigeriani non sono all’altezza del compito: scarsa intelligence, scarsa preparazione e scarsi mezzi. Boko Haram, anche al netto dei legami che sta intessendo con parte della galassia qaedista attiva in Africa, resta una minaccia da affrontare con la massima cautela, perché ha un enorme potenziale di destabilizzazione per un Paese così grande e con un mosaico etno-religoso tanto complesso. La setta, che in una situazione di caos prolifera, ha lanciato un ultimatum attraverso il suo portavoce Abu Zaid: vuole che i soldati del Jmtf si ritirino dal Borno. Solo dopo ci si potrà  sedere e negoziare. Lo chiedono anche gli anziani e i saggi delle comunità  dello stato. Ma il negoziato comporterebbe un riconoscimento politico del gruppo. E poi, secondo problema, trattare su cosa? Ma Abuja ha una possibilità  per far calare la tensione senza calarsi le braghe: il 19 luglioentrerà  nel vivo il processo agli agenti accusati dell’omicido extragiudiziale di Mohammed Yusuf, fondatore di Boko Haram. Dalla sentenza arriveranno molte risposte ma nel frattempo la tensione è destinata a salire, soprattutto la dichiarazione con cui il gruppo ha smentito di aver mai cercato di attaccare l’università  di Maiduguri: “Che problemi potremmo avere con gli studenti? Il nostro obiettivo è Aso Rock”, cioè la sede della presidenza nigeriana.

 


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