La strada (e le illusioni) delle privatizzazioni

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Esistono conturbanti somiglianze tra la situazione attuale e quella del 1992-94. Come allora, l’Italia è scossa da una grave caduta morale, che coinvolge il rapporto tra affari e politica, e da una drammatica crisi economica, che mette in tensione la finanza pubblica. Ma prima di sventolare di nuovo la bandiera delle privatizzazioni a prescindere, come diceva Totò, conviene ricordare i fatti. La manovra del governo le rilancia, ma senza sbilanciarsi in previsioni d’incasso. E la cosa non è senza significato.
 L’idea che privatizzare equivalga a moralizzare non è corroborata dai fatti. Le indagini giudiziarie in corso fanno emergere, è vero, numerosi episodi di malaffare nelle aziende pubbliche e procedure di nomina del management a dir poco inquietanti. Ma altri processi— da Cirio a Parmalat, da Telecom a Italease, dall’Antonveneta a Bnl, per non risalire a Calvi e Sindona— hanno portato a galla le magagne del settore privato non meno gravi. Tra la Rai della lottizzazione e la Fininvest che compra le sentenze c’è una bella sfida. E come dimenticare il fresco paradosso della finanza che viene salvata dagli Stati e poi li mette in croce per aver emesso le obbligazioni pubbliche necessarie a turare le sue falle? Privatizzare, insomma, è una scelta politica, non etica: da fare sapendo di che cosa si sta parlando.
Il patrimonio immobiliare delle pubbliche amministrazioni è vastissimo, ma chiunque ci abbia messo davvero le mani sa che, tranne eccezioni, si presta poco a essere valorizzato rapidamente. Le parti migliori sono già  state oggetto di cartolarizzazioni, le ultime delle quali infelici. Il ministro Tremonti fa bene a spronare gli enti locali affinché, vendendo, riducano la propria quota di debito pubblico. Qualcosa porterà  a casa. Ma gli basterebbe una telefonata al nuovo sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, per farsi raccontare l’impasse dei fondi immobiliari che Letizia Moratti aveva avviato in una metropoli dove immobiliaristi, banche e assicurazioni già  non sanno a chi vendere le decine di palazzi in cantiere e nemmeno le decine di migliaia di appartamenti nuovi e vuoti. Le 6 mila società  municipali sono spesso scandali paesani. Non di rado gestiscono monopoli naturali, che potrebbero essere affidati ai privati tramite gare il cui obbligo è tuttavia saltato con il referendum. Disboscare questa giungla genererà  risparmi, efficienza e migliori costumi. Quanto agli incassi da vendita il Tesoro spara cifre astronomiche negli studi, non in manovra.
 I rapporti di Mediobanca sono assai più prudenti. Le partecipazioni davvero negoziabili restano quelle nelle ex municipalizzate energetiche quotate e nelle concessionarie di pubblici servizi redditizi come autostrade e aeroporti; e poi ci sono le reti minori del gas, dell’elettricità  e delle telecomunicazioni. Prima di vendere, e ricavare oggi al massimo 5-6 miliardi (da portare in detrazione del debito e non a copertura delle spese correnti come ha fatto per 12 anni il Comune di Milano), meglio sarebbe procedere a fusioni e riforme manageriali.
 Potrebbero, simili operazioni, essere facilitate dalla Cassa depositi e prestiti o da investitori di lungo periodo come il fondo infrastrutturale F2i, avendo cura di non aprire la strada ad acquisizioni con eccessive leve finanziarie, e dunque tali da deprimere gli investimenti comunque essenziali alle comunità . Le scorciatoie napoleoniche non esistono. L’incasso più importante potrebbe venire dalla cessione delle partecipazioni dello Stato nelle grandi imprese. Sul Sole 24 Ore, Roberto Perotti e Luigi Zingales, parlano di 140 miliardi. A noi ne risulta meno della metà , come si vede in tabella. E vendere alle quotazioni correnti sarebbe svendere.
 Per capirci, come si piazza la Sace se la consorella francese Coface stenta a quotarsi, e il rischio Francia è inferiore al rischio Italia? Si possono anche ipotizzare acquisti a fermo delle grandi partecipazioni pubbliche. Negli anni Novanta, Mediobanca, Comit, Credit e Banca di Roma ci provarono con la Stet. E vennero felicemente respinte, visti i prezzi di vendita successivi. Ma anche vendere alla cieca sarebbe un errore. E dopo la Telecom, finita nelle mani dei soliti capitalisti senza capitali, sarebbe un errore non umano, ma diabolico. Qualcuno mette in lista la Cassa depositi e prestiti (Cdp), ma dimentica che la Cdp finanzia opere pubbliche ed enti locali secondo regole impensabili per una banca e con il risparmio postale garantito dallo Stato.
 Le Poste, a loro volta, non sono state privatizzate in nessun paese civile: semmai si può ragionare sul Bancoposta, gioiello del gruppo. Quanto a Eni, Enel e Terna pagano dividendi superiori agli interessi che lo Stato risparmierebbe sulla quota di debito pubblico tagliata dismettendole. E l’Agenzia delle entrate rischierebbe che il privato, comprando a leva, autoriduca il prelievo fiscale, che va al 100%allo Stato. Finmeccanica, infine, è l’ultima grande azienda tecnologica basata in Italia. Vogliamo perdere anche questa? Tra poco verrà  posta in vendita Avio, azienda di motoristica ex Fiat. Se si farà  sotto la francese Safran, che comprerà  il concorrente per depotenziarlo, che cosa farà  il governo che voleva difendere Parmalat? L’unica mossa sensata è fare un po’ di ingegneria finanziaria su Eni, Enel e Terna o Snam rete gas, ma su basi realistiche e avendo presente che il saldo dei più e dei meno deve essere positivo per il Tesoro.
Visto che di per sé l’esperienza privata — dagli scandali del Cip 6 a quelli delle rinnovabili, dalla Saras in Borsa al caos Edison, da Enron a Bp — non ha niente da insegnare in materia energetica. Altro, purtroppo, non c’è. Possiamo anche dirci: vendiamo tutte le imprese pubbliche prima di pagare qualcosa di tasca nostra. Ma i conti dicono che sarebbe una goccia nel mare del debito pubblico. Insomma, non saranno le privatizzazioni a evitare l’esame di coscienza ai cittadini di un paese che è vissuto al di sopra delle proprie possibilità  e ha usato la grande occasione dei bassi tassi d’interesse e dell’euro per alimentare i consumi, e per giunta in modo sempre più diseguale tra i diversi ceti sociali, anziché usare questa risorsa per mettersi a posto.


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