Il referendum ha detto no al saccheggio

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Sia la Grecia che l’Italia, per far fronte ad uno shock creato ad arte a fini di predazione, dovranno infatti vendere beni pubblici e comuni per ottemperare, come ha detto Tremonti, a richieste pervenute «in lingua inglese». Anche ammesso che questa richiesta internazionale sia pervenuta davvero e non sia stata la solita menzogna per collocare la responsabilità  altrove (ricordate quando ci dicevano che la legge Ronchi era comunitariamente obbligatoria e quindi non sottoponibile a referendum?), c’è una differenza profonda fra la Grecia e l’Italia. Se Tremonti fosse stato onesto avrebbe dovuto rispondere semplicemente che in Italia per i prossimi cinque anni privatizzare i servizi pubblici è incostituzionale e non può esser fatto.
Esattamente un mese fa il popolo italiano si pronunciava a maggioranza assoluta per cancellare il cosiddetto decreto Ronchi, che prevedeva stringenti obblighi di privatizzazione del servizio idrico integrato (acqua) e degli altri servizi pubblici di interesse generale (in primis trasporti e raccolta rifiuti). La sua abrogazione esclude per cinque anni la possibilità  di porre in essere scelte politiche incoerenti con l’esito referendario. Non si obietti che la volontà  del popolo sovrano è stata rispettata escludendo il servizio idrico dal pacchetto delle nuove privatizzazioni, che diventeranno possibili in modo ancor più privo di garanzie formali. In campagna referendaria gli avversari del sì avevano abbondantemente raccontato al popolo italiano che il referendum costituiva una “truffa” perché una campagna interamente condotta a proposito dell’acqua avrebbe travolto, in caso di vittoria, anche gli altri servizi pubblici. Con la questione si era misurata anche la Corte Costituzionale gennaio, orientandosi ad ammettere il referendum contro il Ronchi (e quindi non solo in materia d’acqua) proprio perché il significato politico del quesito era univoco e consisteva nel richiedere agli elettori se intendessero riequilibrare un rapporto fra pubblico e privato che, nel ventennio della fine della storia, aveva, ad avviso dei promotori, eccessivamente favorito quest’ultimo. Il referendum in sostanza chiedeva al popolo sovrano se intendesse “invertire la rotta” sulle privatizzazioni ponendo le basi per un ripensamento del rapporto pubblico-privato capace di farsi carico anche della questione dei beni comuni. Né i promotori avevano mai negato la più ampia portata dei referendum. Anzi molti di noi hanno continuato a chiedere l’immediata ripresa della discussione sul rapporto fra pubblico-privato sulla base della proposta della Commissione Rodotà  che ancor oggi giace in Senato. Come noto quella proposta era alla base della redazione dei quesiti sull’acqua.
La maggioranza degli italiani ha deciso che dalla crisi si esce con un settore pubblico forte, ben strutturato ed efficiente, e non indebolito da continue privatizzazioni volte solamente a far cassa al di fuori di qualunque pubblico interesse e prive di uno schema giuridico di riferimento. Dobbiamo attrezzarci per fermare anche questo ennesimo tentativo di saccheggio. Non credo che le opposizioni parlamentari possano servire alla bisogna.


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