Non solo lotta di classe

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Altra premessa: mi considero un divulgatore e non un teorico e faccio grandi sforzi per rinchiudere quello che cerco di comunicare nello spazio ristretto del numero delle battute concesso in un quotidiano, per di più di ristretta foliazione. Se scrivessi un testo accademico – cosa che non ho mai fatto né mai farò – o un rapporto di lavoro – che è stato ciò che mi ha impegnato maggiormente nella mia vita professionale – in cui la precisione fa aggio sulla lunghezza, avrei forse aggiunto qualche inciso in più. Se però le espressioni che ho usato lasciassero adito a errori che potrebbero portare i lettori su un cammino sviante, dovrei riconoscere di essere venuto meno ai miei doveri di divulgatore. In tal caso ne farei sicuramente ammenda.
Le vostre critiche sembrano appuntarsi su due frasi che ho usato: «mancano i soldi e si ha paura di rompere il tabù dei bilanci, che sono fatti di debiti e quindi in mano alle società  di rating». Ok. Non ho mai detto però che la «mancanza di soldi» o che «il tabù del pareggio di bilancio» siano fatti naturali. Anzi, ho scritto che, di fronte a una sollevazione della Grecia – e a maggior ragione di tutti i paesi sotto scacco – soprattutto se appoggiati, volenti o nolenti, dai rispettivi governi, i soldi si troverebbero: «Basterebbe quindi che Papandreu…si schierasse dalla parte dei suoi concittadini che si oppongono alla svendita del paese. L’Unione Europea sarebbe allora costretta ad aprire la borsa, non solo per la Grecia, ma per tutti gli Stati membri in difficoltà ». Addirittura ho precisato che «per un’operazione del genere (cioè «trovare i soldi») non mancano proposte operative di ingegneria finanziaria». Non ho neanche mai scritto, come si evince invece dalle vostre critiche, che il problema sia «ingabbiare le agenzie di rating». Anzi, ho scritto, anche se in un precedente articolo: «le società  di rating, interamente controllate dai big della finanza internazionale…che sta ora scommettendo sul fallimento di quegli Stati che si sono svenati per salvarla, svenando a loro volta i propri cittadini». Il problema sarebbe quindi quello di «ingabbiare», per usare la vostra espressione, non le società  di rating, ma la finanza internazionale; che è come a dire «ingabbiare» il capitale. Obiettivo che credo ci accomuni, magari in una formulazione più appropriata. Ma non son certo io ad aver parlato di «ingabbiare».
La sostanza delle nostre divergenze – se ci sono – e della vostra irritazione – che sicuramente c’è – rimanda forse, se ho capito bene, alla vostra tesi secondo cui «l’appropriazione dei beni comuni (si verifica) solo in conseguenza delle modalità  della produzione e della riproduzione capitalistica». Ma chi ha mai scritto il contrario? Certo non io. Quello che penso io è che una politica di riappropriazione dei beni comuni – che vuole dire lotta per il loro controllo diffuso e condiviso – mina le basi «territoriali» del potere del capitale: quelle che più direttamente coinvolgono il lavoro vivo; il quale «vive» sempre in un qualche territorio. La lotta per i beni comuni, e per far diventare «comuni», o più comuni, certi beni è lotta di classe? Anche, ma non solo. Forse è di qui in poi che non andiamo più d’accordo.
Con immutata stima.


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