Respinto due volte

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 CAMPO DI SHOUSHA (confine Tunisia-Libia).Semere Kahsay tiene in mano il foglio. Lo apre con cura, quasi fosse un tesoro. «Nulla osta al ricongiungimento familiare»: rilasciato a metà  marzo, il documento della questura di Piacenza accoglie la richiesta della moglie di Semere, Tsige Geberemariam, di far arrivare il marito in Italia.

Oggi, a quattro mesi di distanza, questo trentaduenne eritreo è ancora a Shousha, il campo profughi al confine tra Tunisia e Libia in cui vivono alcune migliaia di rifugiati e richiedenti asilo, prevalentemente somali ed eritrei, in attesa di essere re-insediati in paesi terzi. Semere condivide la propria tenda con quattro compagni. Con la valigia pronta, aspetta il via libera per poter prendere l’aereo e ritrovare la propria famiglia. Ha tutte le carte in regola, ma per qualche ragione misteriosa l’ambasciata italiana a Tunisi non gli rilascia il visto d’ingresso nel paese, quel visto che gli permetterebbe di riabbracciare la moglie, stringere la figlia di due anni che finora ha visto solo in foto e ricostruirsi una vita dopo più di cinque anni di peregrinazioni. Sollecitata a più riprese da questo giornale sulle motivazioni di questo ritardo, l’autorità  consolare di Tunisi non ha mai ritenuto opportuno rispondere.
Semere ha uno sguardo asciutto, due occhi grandi velati di tristezza che si illuminano solo quando – una o due volte al giorno – parla al telefono con Tsige e con la figlioletta Nahere. «Papà , papà  portami i lecca-lecca quando arrivi», gli dice sempre la bimba, che parla l’italiano meglio del tigrino (la lingua eritrea) e con cui Semere scambia qualche frase in uno strano patois fatto di parole nella nostra lingua che ha imparato al telefono, espressioni in tigrino e suoni onomatopeici.
Semere e Tsige non si vedono da due anni e mezzo, da quell’aprile 2009 in cui lei si è imbarcata per l’Italia. «Era incinta al nono mese. Non volevamo assolutamente far nascere la bambina in Libia. Troppo pericoloso: le donne straniere venivano maltrattate negli ospedali. Abbiamo deciso che dovevamo partire, ma non avevamo abbastanza soldi per prendere la barca tutti e due. Così abbiamo stabilito che mia moglie sarebbe andata e che io l’avrei raggiunta successivamente». Tsige è partita. Il viaggio è filato liscio. È arrivata a Lampedusa. Trasferita al campo di accoglienza di Bari, il 16 aprile ha dato alla luce la piccola Nahere. Semere intanto lavorava, racimolava i soldi per imbarcarsi a sua volta. Fino al 30 giugno del 2009, quando si è imbarcato anche lui su un gommone insieme ad altre 81 persone, quasi tutti eritrei.
Mentre lo racconta, Semere ripercorre le sensazioni provate: il sogno di arrivare in Italia, ma anche la paura per quel mare scurissimo, il buio che inghiottiva tutto e cancellava l’orizzonte. Gli 82 hanno viaggiato per due giorni. Sono arrivati nei pressi della costa di Lampedusa. Hanno chiamato i soccorsi e dopo pochi minuti hanno visto spuntare una grande nave italiana. «A bordo è esplosa la gioia. Eravamo al settimo cielo. Ce l’avevamo fatta», ricorda oggi Semere. I migranti sono stati soccorsi, trasportati sulla nave. «Vi portiamo in Italia. Ora riposatevi», gli hanno detto i militari italiani. Semere ricorda distintamente quel momento: «Per la prima volta da quando ero fuggito dall’Eritrea, mi sentivo felice».
Ma proprio mentre pensava alla moglie e alla figlioletta che avrebbe riabbracciato da lì a breve, l’uomo si è accorto che qualcosa non tornava. Il viaggio era troppo lungo, Lampedusa non poteva essere così lontana. Gli 82 passeggeri hanno cominciato a chiedere spiegazioni, ma i militari sulla nave si sono chiusi in un totale mutismo. «Improvvisamente ci hanno detto che non parlavano inglese. Allora abbiamo capito: ci stavano riportando in Libia».
Erano trascorsi meno di tre mesi tra il viaggio di Tsige e quello di Semere, ma nel frattempo tutto era cambiato. Il governo italiano aveva concluso gli accordi con la Libia e avviato i cosiddetti «respingimenti in mare»: dal maggio 2009, tutte le imbarcazioni intercettate nel canale di Sicilia, erano ricondotte verso le coste libiche, in barba al diritto internazionale e al principio di non refoulement stabilito dalla Convenzione di Ginevra.
Semere e i suoi compagni non credevano ai propri occhi. Non sapevano nulla dei «respingimenti». Hanno cominciato a chiedere spiegazioni. «Alcuni di noi – racconta – hanno mostrato i documenti dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, che dimostravano che eravamo richiedenti asilo». Per tutta risposta, continua Semere, «i militari italiani ci hanno sequestrato telefonini e averi e ci hanno chiusi in una stanza sotto coperta». Dopo dieci ore di navigazione, i migranti sono stati trasbordati su una motovedetta libica e sbarcati sulla terraferma, dove sono stati portati al campo di detenzione di Twisha, nei pressi di Tripoli. Semere ha vissuto nel centro vari mesi, prima di riuscire a farsi liberare corrompendo una guardia. Nel frattempo, le partenze per l’Italia erano bloccate. I respingimenti avevano avuto effetto: nessuno si imbarcava più. Fino al 17 febbraio scorso, quando sono scoppiate le rivolte anti-Gheddafi.
A quel punto, Semere e molti altri eritrei capiscono che devono andar via. La situazione è troppo pericolosa. Fuggono in Tunisia. Si rifugiano nel campo di Shousha. Qui attivano le pratiche per il re-insediamento in un paese terzo. In quanto eritrei non sono rimpatriabili, hanno diritto alla protezione internazionale. In quanto marito di una donna che ha avuto lo status di rifugiata in Italia e padre di una bambina nata qui, Semere ha diritto di essere accolto nel nostro paese. Diritto che la questura di Piacenza gli riconosce. Arriva il nulla osta. L’uomo fa richiesta di visto, pagando anche la quota. E aspetta. Immagina che sarà  questione di giorni. Quattro mesi dopo, di fronte al muro di gomma dell’ambasciata che non gli rilascia il visto né gli dà  alcuna comunicazione, non sa più che pensare.
Prende il telefono. Chiama la moglie e la figlia. Nahere ribadisce: «Papà , un lecca-lecca». Lui riattacca, trattenendo a stento le lacrime. «Aspetto un’altra settimana. Poi torno in Libia e prendo un barcone. Non so perché ce l’hanno tanto con me, ma in un modo o nell’altro io in Italia ci arrivo».


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