Damasco, assalto alle ambasciate una folla di sostenitori del regime contro le sedi di Usa e Francia

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Non doveva andare a finire così: a uova e pomodori marci contro la residenza dell’ambasciatore americano in Siria, e invettive di “cane” all’indirizzo di Robert Ford, nominato personalmente da Barack Obama per ristabilire i rapporti diplomatici con Damasco, malgrado la granitica opposizione del Congresso. «Il presidente Assad ha perso legittimità », dice Hillary Clinton, il segretario di Stato, per la prima volta dall’inizio delle proteste in marzo. «Non rispetta le promesse, accetta l’aiuto dell’Iran per reprimere il popolo».
La svolta americana arriva dopo l’assalto della sua ambasciata: il mattino un centinaio di sostenitori del regime ha divelto parte dell’insegna all’esterno dell’edificio, infranto vetri, spruzzato graffiti. «Nessun ferito e qualche danno», sintetizza un funzionario americano al telefono da Damasco. «Il governo ci aveva assicurato la protezione dettata dal protocollo di Vienna. Non ha fatto abbastanza». Stesso trattamento per la sede francese, dove le guardie allontanano la calca, sparando colpi in aria. Tre agenti feriti, un’auto distrutta, e la «fortissima condanna» di Parigi per la «flagrante violazione del diritto internazionale». «Era gente ben addestrata», denuncia l’ambasciatore francese Eric Chevallier intervistato da France 2.
Il fatto è che la rabbia fra certi siriani andava montando da giorni: drappelli s’alternavano, ora davanti all’ambasciata, ora nel souq della città  vecchia, da giovedì. Quel giorno, infatti, Ford, come Chevallier, aveva “infranto” il protocollo, recandosi a Hama per mescolarsi alla folla di migliaia nella piazza ribelle. Da tempo, la città  è in mano ai dimostranti dopo il ritiro dell’esercito e la rimozione del governatore decretati dal presidente Assad. Nel Suv bianco, accompagnato dall’autista e accolto con rose da una scorta inneggiante alla caduta del regime, Ford «voleva mostrarsi solidale col diritto del popolo siriano di dimostrare in modo pacifico»: così aveva spiegato il Dipartimento di Stato. Quel gesto ha suscitato rimostranze, con l’accusa a Ford d’aver «tentato di infiammare le proteste: la prova del coinvolgimento degli Stati Uniti negli attuali eventi».
«Rubbish, sciocchezze», li ha rintuzzati Ford. Il quale, fine arabista, intratteneva «rapporti discreti» col governo siriano, segnati da scambi d’opinione «franchi e diretti», il che vuol dire anche burrascosi. Ma il dialogo s’era riaperto. Piuttosto, i suoi avversari erano oltre l’oceano: i repubblicani del Senato, che in gennaio gli hanno negato la nomina, col rischio che questa scada fra cinque mesi. In più, quelli erano insorti contro la visita di Ford nella provincia di Idlib, teatro di sanguinosi scontri e di un presunto massacro di soldati. Invitato dal regime, l’ambasciatore era andato a verificare le prove della strage.
Per tutto questo, l’improvvisata di Ford a Hama viene interpretata dal suo entourage come una «mossa rivolta più agli americani che ai siriani, per tacitare le critiche contro la politica di Obama». Da ieri, però, il tono s’è inasprito: nelle parole affidate all’addetto stampa J. J. Harder, l’ambasciatore è perentorio: l’assalto «è un tentativo di distrarre il mondo dalla realtà , e cioè che il governo continua a imprigionare, torturare e uccidere dimostranti pacifici».


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