Quel brutto pasticciaccio del Maldonado
BUENOS AIRES .L’hanno presentata come una delle opere simbolo del progresso sudamericano di questo secolo. 15 km di fiore all’occhiello per un’Argentina risorta dalla crisi, oppure, due megacanali sotterranei grandi come un’elica del Titanic (7 metri di diametro), progettati per evitare che durante le piogge forti i quartieri bene di Buenos Aires imbarchino acqua come il transatlantico, affondando poi nell’indignazione di un milione di residenti della zona.
Li hanno chiamati i tunnel della Manica dell’America latina, ma forse sono solo la manica in cui l’amministrazione municipale della capitale nasconde l’asso per vincere barando, perché, mentre il sindaco di destra, Mauricio Macri, tagliava qualche giorno fa il nastro per inaugurare il più corto dei canali in questione (5 km), la magistratura indagava lui, alcuni suoi assessori e i responsabili della compagnia italiana Ghella che sta conducendo i lavori, per associazione a delinquere, corruzione, danno ambientale e una serie molto lunga di altri capi d’accusa. Inoltre, anche se tutto fosse stato fatto in modo regolare, gli esperti dicono che non funzionerebbe.
Quando nel 2007 si disputò la gara d’appalto per l’opera di «Sollievo del torrente Maldonado» (il fiume carsico che scorre sotto la metropoli, saturandosi ed esondando quando piove molto), Buenos Aires era governata dall’allora sindaco Jorge Telermann, che di lì a pochi mesi avrebbe però passato le consegne a Macri, il quale controllava già il consiglio comunale con il suo partito. Il giovane presidente del Boca, figlio ribelle di Franco (un muratore calabrese divenuto grande imprenditore edile in Argentina grazie ad affari non sempre limpidi), era già da tempo in guerra con il padre e tesseva la fronda tra i fratelli per cercare di accaparrarsi la proprietà delle compagnie create dal «vecchio».
Secondo la ricostruzione delle complesse manovre finanziarie di famiglia durante quell’anno, fatta dalla giornalista e politica peronista Gabriela Cerruti, tra queste imprese c’era anche Iecsa, il più importante costruttore argentino, di cui Franco Macri manteneva l’usufrutto delle azioni, ma aveva ceduto il controllo amministrativo ai figli, prima di sapere che questi gli si sarebbero rivoltati contro imbarcandosi nella crociata politica di Mauricio.
Senza più alcun controllo reale, Franco vendette l’azienda ad Angelo Calcaterra, un altro membro ammutinato della famiglia che, al titolo di nipote di Franco, passò a preferire quello di cugino di Mauricio.
La corrente ribelle all’interno del clan non era però in grado di comprare da sola Iecsa e chiese l’aiuto di Ghella, che si associò nell’acquisto, diventando l’azionista di maggioranza. Lo stesso Franco dichiarò di lì a poco ai giornali di non sapere bene se avesse «venduto a Calcaterra o a Ghella», ma per chiarirlo sarebbe bastato leggere il bilancio 2007 della compagnia italiana che ha costruito la metro di Roma, di Valencia e di Caracas, per cui nel secondo semestre risulta acquisito il 50% di Iecsa e, lo stesso giorno, vinto l’appalto per il Maldonado.
Per sbaragliare la concorrenza in una gara contesissima, la tecnica elaborata dal «macrismo» (che restava dietro le quinte in Iecsa attraverso Calcaterra) e da Ghella, fu quella di presentare un’offerta più bassa del 10% della media, avendo poi già l’intenzione di cambiare il progetto ed aumentare il budget una volta vinto l’appalto da 100 milioni di euro.
Questo lo si evince dai documenti di licitazione, che un gruppo di consiglieri comunali guidati da Milciades Peà±a, il combattivo figlio peronista di uno dei più illustri teorici marxisti argentini, ha allegato alla denuncia penale per corruzione.
Con le modifiche, l’offerta della società Ghella-Iecsa aumentava del 12%, andando praticamente a pari merito con la seconda classificata nell’appalto, la Seli spa, anch’essa italiana, alleatasi per l’occasione con Dycasa ed ormai finita fuori gara.
Mentre la disputa per la commessa era ancora in corso, Ghella scrisse una lettera al Municipio di Buenos Aires in cui chiedeva se le sarebbe stato possibile modificare il progetto ed i costi anche dopo aver vinto l’appalto. La risposta del Municipio fu ovviamente negativa ma, quasi sottovoce, l’autorità comunale consigliò dettagliatamente all’impresa come fare per salvare le apparenze nella documentazione e cambiare poi le carte in tavola una volta firmato il contratto.
A sottoscrivere la risposta fu l’attuale direttore del cantiere Maldonado, ingegner Eduardo Cohen, il quale, oltre a non avere il titolo di studio giusto per ricoprire l’incarico che occupa, fu anche parte della catena di responsabilità di uno dei capitoli più macabri della storia del rock mondiale, quando approvò l’impianto elettrico della discoteca Republica di Cromaà±on a Buenos Aires, andata a fuoco durante un concerto del gruppo Callejeros e diventata la tomba di 194 ragazzi.
Cohen condivide anche la responsabilità dell’approvazione di tutti quegli aspetti del cantiere Maldonado che, secondo i denuncianti, comportano ingenti danni ambientali e che finora hanno giustificato due ordini di sospensione lavori della giustizia. Ad accompagnarlo questa volta però c’è la società Geodata, un’altra compagnia italiana che, avendo in passato già diviso con Ghella diversi affari, va a conformare un secondo conflitto d’interessi quando si aggiudica il compito della perizia ambientale.
Tra le lacune riscontrate in questa, c’è in primo luogo la mancanza di sicurezza nel cantiere, un fatto che alcuni mesi fa ha portato alla morte di un operaio che probabilmente si sarebbe potuta evitare e, secondariamente, ci sono i danni ecologici che l’opera starebbe causando.
Le modifiche tecniche apportate da Ghella e definite «auspicabili» dal referto d’esame di Cohen sarebbero causa di infiltrazioni tra il Rio de la Plata, in cui scola tutta la filiera industriale che dal Paraguay scende per il Paranà fino all’oceano Atlantico, e la falda acquifera Puelche, una riserva d’acqua dolce che abbevera milioni di persone ed è grande come il Mar della Cina orientale (1,2 milioni di km quadri).
A questo si aggiunge il fatto che diversi periti di parte o l’architetto Alfonso Rossi, che da indipendente guida una ong di residenti dei quartieri «inondabili», sostengano che il sistema di tunnel sarà in grado di scolare solamente acquazzoni di media portata, mentre se la pioggia superasse gli 81 millimetri in 3 ore (un fenomeno che secondo il sistema meteo nazionale si presenta con frequenza decennale), oppure piovesse mentre soffia vento forte da sud-est, la struttura tornerebbe a traboccare nelle strade di Baires Nord.
Questa è l’opera per cui sono stati spesi 100 milioni di euro, per cui la Banca mondiale ha concesso un credito pari ai due terzi ed in cui è morto il sommozzatore Ojeda. Come in ogni storia dell’orrore che si rispetti, nelle prime fasi dello scavo è anche emerso un teschio umano: nonostante fosse obbligatoria, non è stata realizzata alcuna perizia archeologica ma, visto che la bocca principale del cantiere si trova sul Rio de la Plata, fiume che i militari dell’ultima dittatura usavano per affondare nell’oblio i desaparecidos, non si esclude che i resti possano appartenere proprio ad un prigioniero politico desaparecido.
In questa settimana che ha preceduto le elezioni municipali di oggi, Macri, come tutti i governanti in carica candidati a un secondo mandato, si si è dedicato ad inaugurare infrastrutture ed è il favorito nei sondaggi. Intanto, la giustizia cittadina è in ritardo con le indagini: una svolta nell’inchiesta potrebbe sovvertire il pronostico di una partita ipotecata, oppure, confermare i risultati di un modello di associazione pubblico-privata brevettato da italiani e argentini, ma giudicato dalle leggi di entrambi i paesi come criminoso.
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