La spirale del disincanto

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 Da alcuni anni, Alessandro Casiccia sta concentrando la sua attenzione di ricercatore sugli aspetti cruciali della nuova fase capitalistica: la globalizzazione, la finanziarizzazione, la competizione non regolata e «ideologizzata». Fra le sue opere, negli anni duemila, si possono ricordare: L’azione in un’era di incertezza (Rosenberg & Sellier 2000), Il trionfo dell’élite manageriale (Bollati Boringhieri 2004), Democrazia e vertigine finanziaria (Bollati Boringhieri 2006), Lusso e potere (Bruno Mondadori 2008)

L’ultimo suo lavoro è dedicato appunto al tema della competizione (I paradossi della società  competitiva, introduzione di Luciano Gallino, Mimesis, pp. 122, euro 14). In proposito, gli abbiamo rivolto alcune domande.
Quali sono gli «effetti distruttivi» della competizione, e qual è – di fronte ad esse – la risposta dell’intervento pubblico?
Ogni confronto competitivo tende all’altrui eliminazione. Paradigmatico è il modello dell’agonismo sportivo. Dove però in partenza si esclude una marcata disparità  fra i partecipanti e una facile previsione del risultato finale. E dove, una volta concluso ogni torneo o campionato, si ricomincia. Non funziona così la concorrenza nel nuovo capitalismo finanziario. Qualsiasi mossa di fusione o acquisizione parte da uno squilibrio, come l’indebolimento di una parte (vedi l’Opa Lactalis su Parmalat). E produce effetti sostanzialmente irreversibili. Del resto non trova applicazione nemmeno l’ideale di Friedrich August von Hayek (grande teorico della competizione); il quale non soltanto assumeva quale condizione l’imprevedibilità  dell’esito ma, per la natura matematica del modello, non contemplava iniziali vantaggi per l’uno o per l’altro. Nella competizione economica globale ogni agire trae alimento da squilibri di forza e procede poi unilateralmente verso un progressivo ridursi del numero dei grandi giocatori. Mentre le dimensioni delle imprese industriali mutano frequentemente in ogni senso, appare invece ben più «lineare» la via percorsa dal grande capitale finanziario: la via verso grandi concentrazioni, «accorpamenti», «alleanze». Così che, più la competizione procede, più si avvicina il capovolgimento del principio stesso da cui muove.
Queste tendenze, negli ultimi tempi, subiscono ulteriore impulso e accelerazione. Il tempo si consuma col proprio intensificarsi, e dietro il «disordine» s’intravedono equilibri inediti, controllati da un nuovo capitale monopolistico. È qualcosa di ben diverso dal capitale monopolistico del Novecento. Vediamo oggi gli stati nazionali (che di quel capitale erano stati parte importante, prima delle concessioni all’ideologia liberista), tornare a rinnegare tali concessioni e tentar di riprendere un qualche controllo dei processi, ora con misure neo-colbertiane, ora rinviando a regole di governance e a norme antitrust la cui sostanziale impotenza però è ovunque evidente.
In che misura la sinistra ha introiettato l’ideologia della «competizione globale», considerando così come «inevitabili» alcune sue conseguenze?
Nei decenni postbellici, contribuire allo sviluppo delle forze produttive rappresentava un dichiarato imperativo per i partiti di sinistra in buona parte dell’Europa occidentale. Sia perché teoricamente il pieno realizzarsi del capitalismo veniva posto come premessa necessaria per il suo superamento. Sia soprattutto perché ogni forma di compromesso istituzionale costituiva il terreno di un equilibrio politico duraturo. E vantaggioso sul piano politico.
Ciò, in quel periodo, significava appoggiare governi di segno pur diverso ma orientati al progresso economico; e sostenere politiche caratterizzate da una presenza pubblica a sostegno della produzione nell’economia dei singoli stati, oltre che da grandi dimensioni aziendali e da forme pubblico-private di semi-monopolio industriale.
Questo modello mutava radicalmente verso la fine del Novecento, per lasciare sempre più spazio a processi di privatizzazione, deregolazione, competizione, nello spazio mondiale del mercato. E mentre tutto mutava, l’impulso allo «sviluppo» rimaneva ugualmente e acriticamente prioritario nelle linee-guida del movimento operaio. Eppure, il capitalismo era mutato nella sua stessa natura. E a svilupparsi erano meno le famose «forze produttive» e assai più la performance di operazioni finanziarie; operazioni che a loro volta variamente coinvolgevano i lavoratori non solo quali stakeholders ma in vari casi, specie negli Stati Uniti, quali azionisti essi stessi (azionisti deboli però, sottorappresentati ed estranei alla gestione). Oggi nella stessa impresa può registrarsi un successo nelle quotazioni in borsa del tutto indipendente dal successo dei beni prodotti.
Più in generale, in che misura le ideologie di «globalizzazione/competizione» sono entrate nel «senso comune», e in particolare nella coscienza dei lavoratori?
Il disincanto anti-ideologico ha intaccato in buona misura anche la cultura solidale dei partiti del movimento operaio. Per il momento, i proletari di tutto il mondo sembrano disuniti più che mai. Le organizzazioni sindacali restano in campo, ma separate in molte cose, ancora incapaci di ridisegnare grandi obiettivi, talvolta condotte a condividere scopi e interessi con la parte imprenditoriale. Senza peraltro trarre vantaggi dalle mutazioni interne a questa. Partiti e sindacati tardano nel cogliere e contrastare il carattere socialmente dirompente di una condizione lavorativa precaria sempre più diffusa; e di una competizione talvolta accanita fra singoli lavoratori, o fra gruppi di lavoratori.


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