Con lo scontro sull’energia pulita già  a rischio 200 mila posti

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ROMA – Che effetti produrrebbe il colpo di scure del 30 per cento sugli incentivi per le fonti rinnovabili se effettivamente fosse nella manovra? La Lega, che ha fortemente voluto il taglio (al centro però ancora di un giallo), sostiene che questa scelta, eliminando il peso delle misure di sostegno all’energia pulita, permetterà  di ridurre il peso delle bollette. Ma in che misura e a che prezzo?
Il ministro per lo Sviluppo economico, Paolo Romani, ha calcolato che il saldo dell’operazione sarebbe negativo: «Non ci sono benefici per la collettività  perché da una parte si incide solo sul 3 per cento del totale del costo e dall’altra si eliminano le agevolazioni alle famiglie numerose e alle classi meno abbienti e si mette a rischio il funzionamento di impianti strategici per la gestione dell’emergenza rifiuti». Anche secondo le stime del ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo il taglio «sarebbe penalizzante per l’intero settore a poche settimane dal quarto conto energia che aveva trovato un complesso equilibrio tra il sostegno al settore e l’allineamento degli incentivi agli standard europei».
Giudizi che nascono dalla preoccupazione per il possibile crollo di un segmento strategico della green economy in cui l’Italia era riuscita a produrre il miracolo della rimonta, agganciando il treno europeo in un contesto estremamente difficile. Le associazioni di settore, l’opposizione e una parte significativa della stessa maggioranza concordano nel ritenere che mettere fuori mercato le rinnovabili (sole, vento, geotermia, biomasse) comporterebbe una serie di rischi. Ecco i principali.
Il primo problema è il rispetto degli obblighi europei legati a obiettivi energetici (minore dipendenza dall’estero, più efficienza, maggiore sicurezza) e ambientali (l’uso dei combustibili fossili aumenta il rischio di danni causati da fenomeni meteo estremi come alluvioni e siccità ). L’Italia ha firmato un triplo impegno da onorare entro il 2020: raggiungere una quota di energia rinnovabile pari al 17 per cento del totale; ridurre le emissioni serra del 20 per cento; aumentare l’efficienza energetica del 20 per cento. Per raggiungere il traguardo, evitando sanzioni economiche pesanti, dovrebbe moltiplicare per tre la capacità  delle fonti rinnovabili al 2005, mentre con il taglio del 30 per cento rischia di diminuirla annullando uno sforzo che negli ultimi anni ha visto l’energia pulita salire a una capacità  produttiva pari a un quarto del totale dell’elettricità  consumata in Italia.
Il secondo punto dolente non riguarda la misura degli incentivi ma il sistema di certezza del diritto senza il quale è difficile trovare imprenditori disposti a rischiare e banche disposte a finanziare la scommessa. Il terzo conto energia, entrato in vigore a gennaio e disegnato su uno scenario pluriennale, è stato messo in mora a marzo. L’accordo successivo, raggiunto a maggio con robusti tagli alle misure di sostegno, è stato sconfessato a fine giugno con la proposta di un ulteriore taglio del 30 per cento. E la marcia indietro decisa dall’ultimo Consiglio dei ministri sembra non resistere al pressing della Lega che fa muro riproponendo una misura bocciata da Palazzo Chigi.
Il terzo scoglio, come ha evidenziato la levata di scudi sindacale, è il boomerang sull’occupazione: migliaia di aziende sono a rischio chiusura e 200 mila posti di lavoro nell’intero settore delle fonti rinnovabili, includendo l’indotto, potrebbero venir meno. Inoltre si volatizzerebbero i 250 mila posti di lavoro al 2020 previsti da uno studio Gse-Bocconi nel settore delle rinnovabili elettriche e un numero analogo, sempre al 2020, stimato dal Kyoto Club per il settore delle rinnovabili termiche e dell’efficienza energetica. C’è infine la molla economica. Le rinnovabili valgono più dell’1 per cento del Pil: una percentuale analoga a quella della crescita attuale. Cancellarle significherebbe azzerare lo sviluppo.


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