Tripoli pronta a resistere il kalashnikov in casa contro l’invasore straniero

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TRIPOLI. SOCIOLOGO, lettore all’Università , qualche parola d’italiano imparata in Toscana, un inglese studiato in Gran Bretagna, il robusto quarantenne con il quale condivido la cena mi dice che anche lui ha un kalashnikov in casa. Come del resto tutti o quasi quelli del quartiere in cui abita. Compresa sua moglie. Lei lavora in un ospedale e non ha tempo per seguire i corsi di addestramento riservati alle donne. E quindi è lui, la sera, a insegnarle come funziona un mitra. È indispensabile saperlo usare. Non si sa mai, “quelli della Nato” potrebbero arrivare. Dopo questa conversazione, condita di sorrisi e di reciproci complimenti, di notte, quando sento spari sporadici, qualche breve raffica, o colpi isolati, immagino che provengano da qualche famiglia in cui si eseguono corsi di addestramento casalinghi. Sul balcone, in cortile, o in cucina, a salve, naturalmente. Sono arrivato a Tripoli con una domanda e rischio di partire senza risposta. L’interrogativo riguarda la tenuta di Gheddafi e dei suoi. La guerra civile ha ormai cinque mesi, e le incursioni aeree della Nato durano da quattro.
E quel che resta del regime, ridotto per lo più alla Tripolitania, non sembra proprio alla vigilia di un tracollo. Non comunque di una disfatta militare. Un’implosione, vale a dire un colpo di mano all’interno, è imprevedibile. Può avvenire tra un’ora o mai. Lo straniero non può intravederne i sintomi. Nel raggio d’azione consentitogli si imbatte soprattutto in cittadini esemplari, fedelissimi al raìs, come il sociologo che insegna a usare il kalashnikov alla moglie, o in semplici uomini e donne che si guardano bene dal manifestare, a un estraneo, umori contrari, nel caso li covassero.
Se le prigioni sono affollate, lo sono anche le piazze. Ogni venerdì, dopo le preghiere nelle moschee, la piazza Verde si riempie di manifestanti inneggianti al raìs. Lo spettacolo sarebbe certo ancora più convincente se lui, il raìs, si mostrasse di persona, e non preferisse rivolgersi alla folla da un bunker annidato nella città  o da un rifugio nel deserto, attraverso un telefono dotato di altoparlante. La sua prolungata assenza lascia spazio a sospetti e comunque prova che la sicurezza gli impone di non esibirsi in pubblico. Gli aerei della Nato non lancerebbero razzi per colpirlo in mezzo a una massa di uomini e donne inermi; in una folla, sia pure selezionata, possono invece nascondersi minacce.
Quattro mesi di incursioni aeree non hanno comunque ridotto Tripoli a una città  in stato d’assedio. E hai l’impressione che col tempo potrebbe accendersi una gara insolita, e impensabile, assurda, qualche mese fa. Chi imploderà  per primo? Il regime di Gheddafi o la Nato? Saranno prima, come pensano non pochi militari dell’intelligence, potenziali avversari del raìs a sbarazzarsi di lui, considerandolo il vero ostacolo alla pace e il motivo della messa al bando internazionale del regime? Oppure, come pensano non pochi politici, non si disgregherà  prima l’alleanza dei paesi della Nato, sempre più scettici sull’efficacia dell’operazione aerea e preoccupati dei suoi costi? La Nato che muore a Tripoli, dopo avere sconfitto l’Unione Sovietica, appare un avvenimento di pura fantapolitica. Eppure c’è chi azzarda l’ipotesi, per stravagante che possa apparire. Per ora l’idea ha il valore di una provocazione.
Mi addentro nella città , e alle spalle della piazza Verde, mi fermo all’ombra, in un caffè dove arrivano deboli soffi di brezza mediterranea. È facile attaccar discorso con i clienti. I quali, subito, sapute le nostre nazionalità  (mi accompagna un collega francese), maledicono “il crociato Sarkozy” e il “traditore Berlusconi, un tempo amico di Gheddafi”. Ma dopo questa premessa ci colmano di gentilezze. Parliamo delle difficoltà  che affrontano gli abitanti di Tripoli: le interminabili code alle pompe di benzina, i furti del carburante nei serbatoi delle automobili, il prezzo del pane in aumento. La conversazione si spegne, e i clienti se ne vanno, quando accenniamo ai molti tripolini che si trovano adesso a Bengasi, capitale dell’insurrezione. Sembra un argomento tabù, come lo è quello delle numerose defezioni di ministri e generali, che neppure abbordiamo. I miei tentativi di dare una risposta alla domanda che mi ha portato a Tripoli danno scarsi risultati.
L’apparato militar-poliziesco, in verità  poco visibile nella città , non spiega (da solo) il consenso o la remissività  della popolazione. La fine di Gheddafi significherebbe oltre alla fine della sua tribù, anche quella delle altre due grandi tribù (la Magartha e la Werfella) da cui provengono larga parte degli uomini delle formazioni militari lealiste. E le rispettive famiglie. Le tribù, sia pure diluite in una popolazione inurbata, hanno il ruolo di movimenti o correnti politiche. La difesa dei valori e la fedeltà  al clan spesso si confondono, o si contraddicono.
Sul fronte orientale, sulla costa, verso Brega, i ribelli non riescono a sfondare, e i lealisti non ce la fanno a piegare la resistenza di Misurata. È difficile immaginare che nel futuro scrutabile, nonostante l’appoggio aereo della Nato, le forze del Consiglio nazionale di transizione possano puntare con successo su Tripoli partendo da quel fronte. I numerosi riconoscimenti internazionali piovuti su Bengasi equivalgono ad altrettante condanne per Tripoli, sempre più isolata. Ma ai successi politici non corrispondono altrettanti successi militari. A cambiare la situazione è il rafforzamento del fronte occidentale, sul Gebel Nafussa, dove gli insorti hanno guadagnato in un primo tempo terreno in direzione del centro petrolifero di Zawiya. Arrivando dalla Tunisia si attraversa quella città  ancora segnata da combattimenti recenti. Ma le truppe di Gheddafi hanno respinto negli ultimi giorni gli insorti e arginano sul Gebel Nafussa (dove i francesi hanno paracadutato armi leggere) la loro avanzata. I due fronti costituiscono una tenaglia, che dovrebbe stringere Tripoli. Le distanze sono tuttavia ancora grandi. Gli insorti del Gebel Nafussa sarebbero a più di cento chilometri dalla capitale. Gli annunci di trattative segrete, numerosi e subiti smentiti, si scontrano al rifiuto di Muammar Gheddafi di uscire di scena. E poiché il suo abbandono dal potere è un’esigenza ribadita sia dagli insorti sia dalla Nato (e legittimata dal Tribunale penale internazionale con il recente mandato di cattura), lo stallo appare totale, anche sul piano diplomatico.


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