Quelle «fumate anomale» I giorni senza pace all’Ilva

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TARANTO — Qui è rosa persino il cimitero. Rosa pallido nei viali d’entrata, può virare verso il fucsia man mano che ci si avvicina al confine nord, all’area Ilva con le cappelle degli operai, al muro oltre il quale già  si scorgono le ciminiere dell’acciaieria. «È l’unico camposanto di questo colore che abbia mai visto! Lo dipingono così per risparmiare: il bianco si sporca in due mesi» , ride amaro il procuratore Franco Sebastio, tarantino caustico, una vita spesa a indagare sulla fabbrica, da quando ancora si chiamava Italsider.
Le collinette ferrose, accumulate nei parchi minerali necessari alla produzione, stanno in pratica dentro la città  (c’è chi dice sia la città  a stare dentro la fabbrica, grande quasi due volte Taranto): quando tira tramontana, l’ossido di ferro tinteggia il vicino rione Tamburi popolato di operai e vedove, il guardrail della strada per Bari e le pietre del vecchio acquedotto romano. «Rosa Ilva» , ripete smoccolando la gente del rione dove le malattie ai polmoni s’impennano. Rosa è la nuance d’una dannazione, il tono di una questione vecchia cinquant’anni che adesso arriva a uno snodo.
Da quando mezzo secolo fa la Dc morotea decise di modificare almeno in Puglia il codice genetico dei metalmeccanici, strappandoli a Pci e Cgil, e piantò quaggiù il quarto centro siderurgico sotto l’ala delle vecchie partecipazioni statali, la fabbrica assicura il pane ai tarantini: ora, dopo tante crisi, gli operai sono «solo» 12 mila più tremila dell’indotto, e con le famiglie s’arriva comunque a 50 o 60 mila. Ma quel pane costa loro salato, perché forse li avvelena, forse li ammazza. Sebastio, con un incidente probatorio, ha affidato a oncologi ed epidemiologi domande agghiaccianti ma inevitabili in una terra dove troppi hanno un parente morto di cancro e dove centinaia di bestie intossicate sono state abbattute: l’Ilva diffonde gas, vapori, diossina, polveri «che mettono in pericolo lavoratori e popolazione» ? Quali sono i valori reali e quali le misure di sicurezza? Ci sono «situazioni di pericolo o danno» inaccettabili? Si tratta di investigare in sei mesi su malattie e ricoveri, stabilire un rapporto tra dolori e veleni, in una storiaccia che ha tra gli indagati per disastro colposo, inquinamento e danneggiamento aggravato di beni pubblici persino il vecchio Emilio Riva, il Signore dei Tondini sceso quaggiù da Milano nel ’ 95 a privatizzare una fabbrica che boccheggiava nell’ultima stagione del parastato: non si sono mai piaciuti, lui e i tarantini, da quando il patron si lasciò scappare che in una città  gli incidenti capitano e siccome l’Ilva «è grande quanto una città …» . «Non lo odio, ma avrei voluto vederlo a processo per l’omicidio di mio marito, come quelli della Thyssen» , mormora Francesca, vedova di Antonino Mingolla, morto in fabbrica a 46 anni: «Ha trasformato le vite in forza lavoro» , dice, guardando il profilo dell’Ilva sul lungomare.
Taranto è tuttavia città  di paradossi. Domani a Roma, il ministero dell’Ambiente dovrà  decidere se concedere all’Ilva la tanto attesa Aia: gli inglesi la chiamano permit, permesso; noi, maestri di ambiguità , Autorizzazione Integrata Ambientale, che vai a spiegare a un contadino di Manduria cosa significa. Senza l’Aia, road map industriale dei prossimi cinque anni, l’Ilva sarebbe alle corde. Bene: a fare il tifo perché gliela concedano ci sono in prima fila i sindacati, a braccetto con gli industriali del settore metalmeccanico (che minacciano serrate in caso di esito negativo) e col sindaco (di tradizione comunista) Ippazio Stefà no. «Con l’Aia controlleremmo meglio la fabbrica» , giura Stefà no (senza Aia, e senza Ilva, lascia intendere, la città  scivolerebbe in una crisi mai vista). «Allora qua per provare a vivere dobbiamo morire» , replica qualche ecologista con un terribile ossimoro. Qualche controllino a sorpresa hanno deciso di farlo i carabinieri del Noe di Lecce, in quaranta giorni tra aprile e maggio: e hanno rilevato fumi, anomalie, accensioni inappropriate delle torce in cima alla fabbrica, circa duecento episodi di slopping (emissioni da brivido). Il Noe ha chiesto alla Procura nientemeno che il sequestro delle acciaierie e di alcuni impianti.
Sebastio ha preso tempo, convinto com’è che «grandi questioni economiche e politiche non si risolvono per via giudiziaria» . Ma se oncologi ed epidemiologi mostrassero il pollice verso, il futuro della fabbrica potrebbe diventare complicato da queste parti. «State enfatizzando, siete fuori strada» , ci assicura nel suo ufficio dell’Ilva Adolfo Buffo, responsabile di sicurezza e ambiente: «Noi abbiamo speso un miliardo per metterci a norma, ben prima di avere l’Aia. E i carabinieri hanno sbagliato, abbiamo ricostruito quei 40 giorni: le emissioni sono cinque in un’acciaieria e 27 nell’altra, solo in parte riconducibili a slopping. Noi pensiamo di avere ridotto polveri, diossina e emissioni di zolfo dell’ 80 o 90 per cento. Mi creda, c’è da lavorare perché lo stabilimento possa vivere insieme alla città , e invece passiamo il tempo a parare i colpi. Non sarebbe meglio remare tutti per la piena compatibilità ?» .
 Buffo è uomo rassicurante e di buonsenso: «È vero, una parte di Tamburi ha problemi. Ma lì non ce l’ha mica messo Riva lo stabilimento!» . Questo è incontestabile. A fine anni Cinquanta la fabbrica, strappata agli odiati baresi, arrivò come un trofeo del mitico arcivescovo Guglielmo Motolese e del suo braccio secolare Mimmo D’Andria, gran capo della Cisl (che è stata a lungo sindacato egemone a Taranto). Un sindaco di allora, a chi gli chiedeva perché diavolo avessero accettato quell’ecomostro ante litteram sul litorale, rispose sincero: «Eravamo talmente contenti che l’avremmo messo pure nella piazza principale» . Errore letale. Magnifiche sorti e progressive parvero aprirsi per la città  dei due mari, finché Paolo VI venne a pregare all’Italsider a Natale del ’ 68 e chiese con preveggenza: «L’operaio sarà  macchina anche lui?» . Qualcosa stava già  cambiando e Walter Tobagi, undici anni dopo, raccontò per il Corriere le mutazioni antropologiche di quell’operaio, divenuto metalmezzadro, un ircocervo mezzo metalmeccanico e mezzo contadino. Qualcosa è cambiato ancora, molto s’è perso.
Oggi i padri scioperano e i figli entrano in fabbrica per paura di perdere il lavoro, rapporti familiari e sindacali sono segnati dal trauma della palazzina Laf, il reparto di punizione dove l’azienda spediva i dipendenti meno graditi. Un bel reportage di Malpelo su La7 ha documentato come il 12 giugno, giorno della memoria per i morti sul lavoro, la piazza operaia e sindacale fosse quasi deserta. «Siamo come Pompei, l’acciaio fuso è dentro di noi» , dice Fulvio Colucci, che con Giuse Alemanno ha dedicato a queste storie il suo saggio Invisibili. Il sindaco Stefà no deve avere anche lui un po’ di acciaio fuso dentro, perché giura di non avere letto il rapporto del Noe: «No, nemmeno sui giornali… sa?, sono molto impegnato» . «Prima dell’ambiente sono state inquinate le coscienze, ma senza l’Ilva i nostri ragazzi tornerebbero ad aprire cozze sugli scogli» , sbuffa Nicola Milfa, 79 anni, trenta di fabbrica, polmoni malati, un nipote ventenne ora nei reparti. Calcetto e outlet al posto dell’attivo sindacale, memoria tradita per sopravvivere. Semplificare è dura. Ci hanno provato quelli di Tamburi, guidati da un altro ex operaio, Peppe Corisi, consigliere di circoscrizione.
Nel rione hanno mezzo una targa: «I cittadini di via De Vincentis Lisippo Savino e Troilo. Nei giorni di vento nord nord/ovest veniamo sepolti da polveri di minerale e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale Ilva. Per tutto questo gli stessi MALEDICONO coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare» . Ormai pure la targa s’è incrostata di rosa. «Non la puliamo più» , dice Peppe: «Così si capisce meglio» .


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(la Repubblica, VENERDÌ, 23 FEBBRAIO 2007, Pagina 27 – Cronaca)

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