Assegni più leggeri da 8 a 150 euro La nuova mappa della previdenza

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ROMA— La nuova stretta sulla previdenza costerà  ai pensionati italiani almeno 4 miliardi e mezzo di euro nei prossimi due anni. Sempreché l’inflazione non continui ad aumentare, rendendo più doloroso il blocco, totale o parziale, della rivalutazione degli assegni superiori ai 1.428 euro lordi mensili. Il freno all’indicizzazione porterà  nelle casse dello Stato 2,2 miliardi di euro l’anno: l’effetto sulle pensioni più basse sarà  quasi impercettibile, ma sugli assegni più alti l’impatto sarà  consistente.
Per fare i suoi calcoli il governo ha immaginato un indice di rivalutazione delle pensioni dell’ 1,5%sia nel 2012 che nel 2013, anche se c’è il rischio concreto, visto l’attuale andamento dei prezzi, che l’indice debba essere rivalutato in misura maggiore. Se arrivasse al 2%, il risparmio sulle pensioni, e dunque il mancato recupero del potere d’acquisto per i pensionati, salirebbe a 3 miliardi di euro l’anno, 6 miliardi nel biennio. Clausola di salvaguardia Tenendo per buone le stime del governo, un pensionato che percepisce 1.500 euro lordi mensili dovrà  rinunciare a 8 euro l’anno, che salgono a 60 euro nel caso di una pensione mensile di 2.000 euro, a circa 100 se l’assegno è di 2.500 euro, oltre 150 euro su una pensione di 3.500 euro. Sacrifici mitigati solo in parte da una clausola di salvaguardia inserita nel decreto, che rende il blocco della rivalutazione meno aspra rispetto a quelli varati nel 1992 dal governo di Giuliano Amato e nel 1996 dall’esecutivo guidato da Romano Prodi. Mentre allora il blocco fu totale per le pensioni più alte, questa volta un minimo di perequazione ci sarà  per tutti. I 3,2 milioni di pensionati che ricevono un assegno da tre a cinque volte il minimo (476 euro), cioè tra 1.428 e 2.380 euro lordi mensili, subiranno solo un taglio del 55%dell’indicizzazione solo sulla quota eccedente i 1.428 euro. E così per i pensionati più ricchi: perequazione totale sui primi 1.428 euro, al 45%sulla quota tra 1.428 e 2.380 euro, nessuna rivalutazione sulla parte eccedente (invece del 75%come avviene oggi).
In pensione più tardi
Oltre alla perdita del potere d’acquisto, ci sarà  da fare i conti con l’aumento dell’età  pensionabile dovuto alle misure varate negli anni scorsi, e che hanno effetto già  da quest’anno. Sui requisiti minimi per la pensione di anzianità  giocheranno, infatti, sia il meccanismo delle quote, che già  dal 2011 ha portato l’età  minima a 61 anni (ma con almeno 36 anni di contributi), che le finestre mobili introdotte con la manovra triennale dell’anno scorso, mentre per le donne che lavorano nel settore pubblico nel 2012 l’età  minima per la pensione di vecchiaia salirà  di colpo da 60 a 65 anni. Dal 2014 in poi, per tutti, bisognerà  considerare anche l’effetto dell’agganciamento automatico dell’età  di pensione alle speranze di vita. E, dal 2020, anche per le donne che lavorano nel settore privato partirà  l’aumento progressivo dell’età  minima, da 60 a 65 anni. Di fatto, già  da quest’anno, l’età  minima della pensione di anzianità  è aumentata di due anni per i lavoratori dipendenti e di due anni e mezzo per gli autonomi. C’è stato il passaggio da “quota 95″a “quota 96”, cioè 61 anni di età  invece di 60 con 35 anni di contributi. In più sono scattate le finestre mobili, che di fatto mangiano un altro anno alla pensione: l’assegno previdenziale, infatti, comincia ad arrivare 12 mesi dopo la maturazione dei requisiti minimi per i dipendenti, 18 mesi per gli autonomi. Dal 2013 si passerà  a “quota 97″per i dipendenti e a “quota 98″per gli autonomi, quindi l’età  minima salirà  ancora di un anno rispetto a oggi. E nel 2014, un anno prima del previsto, entrerà  in gioco il meccanismo dell’adeguamento automatico dell’età  minima alle speranze di vita. In sede di prima applicazione l’aumento dell’età  di pensione non potrà  essere superiore a tre mesi.
Dal 2018, però, scattano gli aggiornamenti triennali, che saranno pieni, e capaci di produrre effetti consistenti. Basti pensare che l’Istat ha calcolato che nel 2050, rispetto al 2007, le speranze di vita, a 65 anni, aumenteranno di 6,4 anni per gli uomini e 5,8 anni per le donne. Appuntamento al 2020 L’appuntamento successivo è fissato al 2020, anno in cui inizierà  il percorso di progressivo adeguamento delle pensioni di vecchiaia delle donne nel privato, dagli attuali 60 ai 65 anni degli uomini. Dal 2020 ci vorrà  un mese in più, dal 2021 due mesi, e così via, per arrivare a regime nel 2032.
L’effetto di tutti questi provvedimenti inciderà  in modo molto rilevante sulla spesa pubblica. Ai 4 miliardi e mezzo che saranno risparmiati nei prossimi due anni con la mancata rivalutazione, si devono aggiungere i risparmi attesi dall’agganciamento della pensione alle speranze di vita, modesti nei primi anni ((2,1 miliardi di euro dal 2014 al 2020), ma molto rilevanti negli anni successivi: 13 miliardi di risparmio nel decennio 2020-2030, e ben 19 miliardi di euro dal 2030 al 2040. Più quello che si risparmierà  con l’aumento dell’età  di pensione delle donne e l’allungamento dell’età  per effetto delle quote e delle finestre.
La rivoluzione assistenziale
Altri risparmi verranno dalla sistemazione del contenzioso previdenziale nel settore agricolo, prevista dal decreto appena varato dal governo. Ma in prospettiva gli effetti più consistenti sono attesi dalla riforma di tutto il meccanismo dell’assistenza, contemplata dalla delega per la revisione del sistema fiscale, e che si configura come una vera e propria rivoluzione. Il primo passo sarà  la revisione degli indicatori della situazione economica dei contribuenti, l’indice di “bisogno”che regola le prestazioni assistenziali. Il vecchio Isee andrà  in pensione, e sarà  sostituito da un meccanismo che terrà  in maggior conto la composizione del nucleo familiare. Poi il passaggio fondamentale sarà  la revisione dei criteri per poter ricevere gli assegni. Saranno riconsiderati i parametri per le pensioni di invalidità  e anche quelli per le pensioni di reversibilità  che si tramandano ai coniugi, che sono 4,8 milioni e che costano 38 miliardi di euro l’anno (34 all’Inps, 4 all’Inpdap).
Una cifra molto elevata, pari al doppio di quella che si spende in Francia e in Germania e al triplo di quanto costano, in media, le pensioni di reversibilità  in Olanda. E non è tutto, perché la riforma prevede anche un ruolo diverso per l’Inps. Sarà  l’agente pagatore e terrà  il “fascicolo elettronico”di ciascun assistito. Ma a fare selezioni e controlli per l’accesso e il diritto alle prestazioni saranno Regioni e Comuni. Che dovranno rispettare criteri ben precisi, a meno di non volerci rimettere di tasca propria.


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