Mecenati. Come salvare l’arte del Belpaese tra soldi privati e tagli pubblici

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Si allunga ogni giorno la lista dei siti abbandonati, dei restauri mancati, dei musei in crisi, dei paesaggi devastati. Perciò è giusto che ogni iniezione di fondi privati ai beni culturali venga salutata da sospiri di sollievo e soprassalti di gratitudine. Senza nulla togliere alle iniziative più benemerite (come quella di Banca Intesa-San Paolo annunciata da Giovanni Bazoli), chiediamoci in quale contesto viene oggi rilanciata in Italia la figura del “mecenate”. La politica di settore del governo ha avuto due momenti caratterizzanti: primo, il taglio di un miliardo e 300 milioni di euro ai fondi del Ministero dei Beni Culturali; secondo, l’istituzione di una nuova direzione generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale. Il combinato disposto dei due provvedimenti delinea una strategia davvero inedita, made in Italy, secondo cui si valorizza disinvestendo. Conseguenza inevitabile della crisi? No: in Francia gli investimenti in cultura sono stati sanctuarisés, considerandoli sacri e non tagliando un centesimo. Il ministro Frédéric Mitterrand, per celebrare il ruolo civile della storia dell’arte e l’introduzione dell’insegnamento obbligatorio della materia in tutte le scuole francesi, ha promosso e finanziato (circa 700.000 euro) un grande Festival d’histoire de l’art che si è svolto poche settimane fa a Fontainebleau. La crisi economica è la stessa, le reazioni in Francia e in Italia sono opposte.
La carenza di fondi pubblici rende più preziosi i finanziamenti privati, in ogni caso utili e graditi. Non manca chi, ritenendo il patrimonio culturale di competenza esclusivamente pubblica, vede ogni intromissione del privato come una profanazione. Posizione insostenibile, ma lo è anche quella di chi propugna la veloce eutanasia dell’amministrazione pubblica del settore, e sogna (invano) bilanci museali subitamente in attivo non appena cali dal cielo il sospirato manager privato. La parola d’ordine di una “privatizzazione” sommaria, simmetrica ai tagli “lineari” (leggi: alla cieca) di Tremonti, fa leva sulla mitologia del “museo-azienda” all’americana, efficiente anzi produttore di reddito in quanto privato: singolare invenzione di ministri nostrani che dei musei americani ignorano rigorosamente tutto. Ma negli USA, come in tutto il mondo, tutti i musei (pubblici o privati) sono strutturalmente in passivo, e i loro introiti diretti (biglietteria, libreria, etc.), non coprono mai più del 15-20 % delle spese di gestione. Se il bilancio va in pari, è per via del proprio endowment (oltre 2 miliardi di dollari per il Metropolitan Museum), costruito con donazioni private, anche di poche centinaia o migliaia di dollari, favorite da meccanismi di detassazione che l’Italia ignora: in tal modo, i musei sono finanziati dallo Stato (federale) e dai singoli Stati, che per favorire le donazioni rinunciano a enormi introiti fiscali.
Nel sistema italiano (come in quello francese), nulla di simile è pensabile. È dunque impossibile il mecenatismo privato? Al contrario, l’approdo di fondi privati a dare un minimo di respiro a un settore vitale per il Paese, ma in grande sofferenza, va in ogni modo incoraggiato: purché non diventi un alibi per ulteriori tagli della spesa pubblica. Da esempio può servire la campagna di fund raising che il Louvre ha lanciato per acquistare le Tre Grazie di Cranach: un milione di euro raccolti in poche settimane, ma per integrare i tre milioni di euro di fondi pubblici che già  il Louvre aveva gettato sul tavolo. Ma i privati potranno esercitare il loro ruolo in modo costruttivo e virtuoso, se lo Stato è in rotta? Troppo spesso in Italia l’intervento privato è concepito non in sussidio delle pubbliche istituzioni, ma per surrogarne l’assenza, ripianando i buchi di bilancio che lo Stato (su altri fronti assai spendaccione) crea borseggiando se stesso. Un esempio: è giusto cercare fondi (anche privati) per il Colosseo o per Pompei, per Brera o per gli Uffizi, purché non dimentichiamo che qualsiasi seria azione di tutela e valorizzazione (due aspetti inscindibili) richiede altissime competenze tecniche e continuità  di azione conoscitiva e amministrativa. E come è possibile, se da anni la pubblica amministrazione dei beni culturali ha cessato di assumere, e il personale tecnico-scientifico in servizio oggi ha un’età  media di oltre 55 anni?
Deve poter esistere un mecenatismo privato con alto senso culturale e civile: ma allora non può limitarsi ad aprire i cordoni della borsa (meno che mai cercando guadagni aziendali), ma deve esser capace di idee propositive, di cultura manageriale autentica, e dunque rispettosa delle competenze specifiche di archeologi e storici dell’arte. Deve sposarsi con una rifunzionalizzazione delle strutture pubbliche della tutela, che punti su numerose, urgentissime assunzioni, sulla base del merito, che immettano nei ruoli i moltissimi giovani che abbiamo, finora invano, formato nelle nostre università .
Il ruolo del pubblico e del privato, pur in un momento buio come questo, può e deve essere ridisegnato entro un grande patto nazionale per la tutela, che parta non dalla spartizione delle torte, ma dalle esigenze vitali del nostro patrimonio (paesaggi e monumenti “maggiori” e “minori”, musei e siti naturali e archeologici) e includa Stato, regioni, enti locali, privati. Solo così potremo vincere il superficiale economicismo che svendendo la sostanza profondamente civica dei beni culturali produce una crescente usura dei valori simbolici che li permeano e che cementano la società , incrementandone la capacità  di rinnovarsi e di vincere le sfide del futuro.


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