L’Italia di Isnenghi doppia e dimezzata

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Di pochi storici si può dire che abbiano completamente rivoluzionato il proprio campo di studi, e Mario Isnenghi è sicuramente tra questi. Assieme a Giorgio Rochat, e con il concorso di studiosi e intellettuali come Alberto Monticone ed Enzo Forcella, nella seconda metà  degli anni Sessanta rovesciò completamente l’interpretazione della prima guerra mondiale e soprattutto il suo mito, fino ad allora inossidabile presso molte generazioni di italiani. 
Attraverso la riscoperta di autori e testimoni rimossi o volutamente fraintesi, di documenti e memorie finalmente veritieri sui Vinti di Caporetto e sulla tragica frattura che aveva diviso – e non unito – gli italiani, si impose lentamente presso l’opinione pubblica una percezione completamente diversa della prima guerra mondiale, finalmente realistica e non più mitologica e trionfale.
Un «fascio» di storie
Abbiamo parlato di percezione, non a caso, e proprio questo è l’elemento centrale della nuova proposta storiografica di Isnenghi (Storia d’Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società  dello spettacolo, Laterza 2011, pp.673, euro 30), che dispone in parallelo storia reale e storia percepita. Un tema quanto mai attuale, in un’epoca dove la storia percepita attraverso il discorso pubblico sembra prevalere nettamente sulla storia reale, con tutte le implicazioni nuove che il libro affronta e che qui discuteremo brevemente.
Ma prima diciamo subito che l’opera risulta leggibilissima, malgrado gli eccessi di affabulazione e le citazioni letterarie sterminate che sono la cifra abituale della prosa di Isnenghi; e se il libro per dimensioni e andamento è destinato al novero, come si diceva un tempo, delle «persone colte» (molto più ampio di quanto il mercato pigramente immagini), delinea pure in termini suggestivi una visione della storia d’Italia molto particolare e personale, che raccoglie e ricompone numerosi scritti degli ultimi decenni, presentandosi come una summa del pensiero dell’autore sulla storia italiana.
Risorgimento e fascismo sono «in sostanza» le uniche epoche che attirano interesse da parte degli osservatori stranieri, si dice nell’introduzione (e il fascismo «è anche il fascio delle storie precedenti, reinterpretate e accorpate»). E la struttura dell’opera dedica infatti uno spazio ristretto e avaro all’Italia repubblicana, che forse meno si presta al gioco di vicende individuali destinate a diventare esemplari della percezione dei protagonisti della storia nel tempo. Laddove questa strada viene tentata, gli esiti non sono veramente significativi: a parte Guareschi, da tempo immemorabile assunto a scultore di caratteri profondi dell’Italia della ricostruzione, le vicende di Ansaldo e di Longanesi non sembrano rappresentative di una vicenda collettiva, così come il percorso di Cucchi e Magnani non sembra riassorbire in sé tutto l’universo del socialismo e del comunismo in età  repubblicana.
Non ci sono, qui, storie veramente esemplari come quella di Italia Donati, al tempo stesso eroina e vittima, come donna e come maestra della scuola pubblica, in una età  «liberale» che tentava di costruire progresso ed emancipazione al prezzo di troppe fatiche e troppe ferite.
Osservatorio veneto
Ma gli squilibri più evidenti sono nella dimensione «geografica» dell’opera: quella di Isnenghi è una storia d’Italia che, dopo un breve cenno iniziale al brigantaggio e a Francesco De Sanctis, si svolge interamente a nord del Volturno, si sofferma raramente e con evidente disagio nell’odiata capitale dei preti, e include a pieno titolo l’Atene italiana in riva d’Arno. Ma il suo cuore è tutto al di là  della Linea Gotica, ed è un cuore che pulsa rilassato e familiare nel Triveneto. L’osservatorio veneto è peraltro decisivo per consentire all’autore di porre con forza una delle poche costanti di fondo unitarie della sua Italia: la doppia cittadinanza – doppia e quindi «dimezzata» – di cattolico e italiano, che ogni connazionale porterebbe con sé: «l’anomalia italiana più incisiva, perché strutturale e immanente» («potrei dire schiettamente che questa è un’opera anticlericale», si dichiara nel Preambolo).
Questo vale anche in epoca risorgimentale e «liberale», al di là  della laicità  professata dalle classi dirigenti, unita a un moderatismo sociale che non disdegna l’apporto clericale al contenimento delle possibili turbative sociali. In una Italia così strutturata, non sorprende che «il» romanzo della nuova Italia divenga per definizione I promessi sposi, anziché Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, troppo nutrito degli echi di rivoluzione e modernità  appena intesi, fuori dalla cappa soffocante della morale tradizionale. A fine secolo, la lunga e tormentata vicenda di Antonio Fogazzaro, così connessa alla «sfortuna» del modernismo presso le gerarchie ecclesiastiche e presso la stessa cultura laica, sembrerà  confermare l’impossibilità  di una autoriforma cattolica, e il «vivere da cattolici» non lascerà  altra strada agli innovatori che la disposizione finale e rassegnata a «sbagliare con la Chiesa».
Lo spazio maggiore, in proporzione, è dedicato fondatamente alla prima guerra mondiale, a ciò che la precede come al suo lungo strascico che si concluderà  con l’avvento di Mussolini, «costola strappata alla sinistra per governare il trapasso dalla società  dei notabili alla società  di massa».
Tra Battisti e De Gasperi
L’interventismo è certamente una minoranza, così come era stata minoranza l’Italia del Risorgimento, ma la differenza di fondo, nota Isnenghi, è che qui la maggioranza non ha più facoltà  di rimanere assente e in disparte, ma viene trascinata con la forza in una guerra che non vuole e non capisce. Qui le storie dei singoli, piccoli e grandi, assumono davvero un rilievo che svela e illumina i retroscena più ascosi della «grande storia». Le studentesse triestine che scrivono temi assai poco imbevuti di irredentismo bensì fedeli all’Impero multinazionale, i sacerdoti di Asiago giustiziati perché considerati austriacanti, il generale Cadorna e gli alti comandi, la guerra degli intellettuali e quella dei fanti; e su tutto il meccanismo infernale delle decimazioni e la sua logica contorta di tenere alto il morale deprimendolo, attraverso un meccanismo di terrore codificato e burocratizzato, e infine accettato da tutti. Più ancora che Trieste è Trento che pare emergere come luogo esemplare. Qui si gioca una delle tante vicende di Italie parallele e forse alternative ricorrenti nel libro, impersonata dai due deputati degli italiani d’Austria, Cesare Battisti e Alcide de Gasperi, il socialista condannato a morte per il suo patriottismo e il politico che rimane nel parlamento di Vienna, con tiepido fervore verso la guerra degli italiani. 
Siamo su un terreno scivoloso, che richiama alla memoria vecchie prime pagine dell’Unità  dei primi anni Cinquanta, quelle con la foto di Togliatti in divisa da alpino contrapposto al cancelliere austriacante. Ma Isnenghi si pone il dubbio se non sia proprio De Gasperi il rappresentante «normale» della sua gente e del suo popolo, che «nuota» a suo agio fra contadini e parroci di una terra governata per secoli da un vescovo principe. Il personaggio di Cesare Battisti torna più volte, ipotizzato – se sopravvissuto – come il possibile interprete di una «terza via» nel dopoguerra italiano al posto dello sbiadito Ivanoe Bonomi, capace di assorbire e sterilizzare le istanze del suo vecchio compagno Mussolini; e poi ancora, a catastrofe avvenuta, accostato «in simbiosi antifascista» a Giacomo Matteotti come uomo-simbolo del socialismo democratico, attraverso le pagine di Salvemini: dove però la confluenza retorica del patriota più fervido tra i socialisti e del più risoluto oppositore della guerra, «impensabile in precedenza», è ormai possibile perché il dopoguerra si è chiuso, ma si è concluso con una sconfitta duratura.
A prescindere. È la frase di Totò che ritorna più volte, per descrivere gli assetti mentali e culturali stabili nelle molte Italie, da quelle liberali, clericali e socialiste del post-Risorgimento fino al tempo di Berlusconi su cui la storia si arresta. Italie «a prescindere», fatte di molte e ricorrenti conventio ad excludendum, che si nutrono di opposte e convergenti reticenze, dove la persistenza sembra prevalere, alla lunga, sui mutamenti, e in ogni caso riemerge con fattezze nuove dopo le eclissi anche durature. Un meccanismo che non deprime, ma esalta la partecipazione alla politica, tanto più massiccia in quanto innervata su odi e timori forse più forti di fedi e convincimenti.
Tempeste sentimentali
Qui si può riprendere il discorso sulla storia «percepita» da cui eravamo partiti. È evidente che in una Italia siffatta la percezione della storia gioca un ruolo fondamentale nel definire sé, il proprio gruppo, la propria appartenenza, passato e futuro assieme al presente, e i mille rivoli della storia italiana descritti in quest’opera esemplificano bene quest’assunto. Nel frattempo, però, la «percezione» del problema da parte dell’autore è in apparenza cambiata, e se ne dà  conto nelle pagine introduttive. Sottolineo apparentemente perché le nuove preoccupazioni che lo spirito del tempo hanno imposto non mutano in nulla, a ben vedere, l’impianto di questa storia, che infatti viene proposta così come è stata elaborata nel tempo.
Ma non è un caso che gli storici che più avevano operato sul terreno della memoria (Pierre Nora in Francia e Mario Isnenghi in Italia) abbiano dovuto entrambi prendere posizioni nette contro l’abuso di una memoria che sembra contrapporsi alla storia o pretende di sostituirsi ad essa. La storia percepita oggi sia attraverso la chiacchiera mediatica, sia attraverso l’abuso di memoria pubblica ossessiva e prescrittiva sta soffocando la storia vera, frutto sempre di interpretazioni, ma non di arbitrio, partito preso, stravaganza o fantasticheria. Il richiamo ai fatti che Isnenghi sottolinea con forza, non ha in sé alcuna ingenuità  tardo-positivistica, ma nasce dalla consapevolezza che l’enfatizzazione della memoria ha aperto la strada al «relativismo soggettivista», come scriveva già  nella nuova edizione dei Luoghi della memoria.
Al tema dell’abuso – colpevole o inconsapevole – di memoria dedica riflessioni importanti anche Giovanni De Luna (La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli 2011, pp. 201, euro 15), che riprende temi trattati anche su questo giornale attorno alla «recintazione» della memoria pubblica da parte degli stati e alla «vittimizzazione» del ricordo attraverso l’inflazione di giornate della memoria sempre meno incisive perché inflazionate e ridondanti. Anche qui, torna la contrapposizione tra memoria e conoscenza storica: «più storia e meno memoria vorrebbe dire distanziarsi dalla tempesta sentimentale che imperversa sulle nostre istituzioni, recuperare un rapporto con il passato più problematico, più critico, più consapevole».
Il passato di una comunità 
A me sembra si possa aggiungere che nulla del lungo lavoro operato sulla memoria da tanti studiosi vada smarrito, anzi andrebbe rivendicato come una acquisizione da cui non tornare indietro; ma deve essere anch’esso storicizzato, assunto come una dimensione critica da cui la storia non dovrebbe prescindere. Le dinamiche della memoria pubblica hanno sempre avuto – e hanno a maggior ragione oggi – una logica del tutto peculiare, non «fanno» storia ma dovrebbero essere oggetto di storia, per quello che svelano e quello che sottintendono nel modo in cui una comunità  sceglie di commemorare il suo passato.


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