Un americano a Damasco

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Era un uomo con ideali umanitari, fondamentalmente anarchico (ma in vecchiaia divenne un acceso conservatore), disposto a viaggiare – sobbarcandosi le più pesanti fatiche – per conoscere quella parte dell’umanità  che l’Occidente aveva depredato e oppresso. E quando iniziò la sua avventura verso Oriente aveva all’attivo un paio di romanzi tra cui I tre soldati. Quanto a Orient Express (oggi disponibile nelle edizioni di Donzelli) fu pubblicato nel 1927, ma parte di quegli articoli aveva già  visto la luce su varie riviste americane. Non era Hemingway. Nel senso che non possedeva lo stesso carisma. Dos Passos era fatto di una stoffa diversa. Era immaginifico, lussureggiante, barocco. Dotato di una prosa umida e calda che si appiccica alla pelle come un velo di sudore. Ci si deve fare l’abitudine – sentirla in tutta la sua bassa pressione e restare immobili, mentre le frasi si muovono e incantano il lettore – per carpirne la potenza.

Era il 1921 quando attraccò con un piroscafo a Venezia e da lì partì per i Balcani, attraversò la Turchia e il Caucaso, giunse al cospetto del monte Ararat, proseguì per la Persia e, infine, dopo un’estenuante marcia con una carovana, arrivò a Damasco. Non era il primo a seguire quella rotta. Viaggiatori celebri si erano spinti fin laggiù. Altri, come Robert Byron, dopo di lui, proseguiranno per la via dell’Oxiana. Quello che però distinse Dos Passos era la voglia di un americano dell’Illinois di raccontare senza profanare, di descrivere immedesimandosi con i mondi che vedeva e che erano agli antipodi della sua cultura. Meticoloso nella cura dei particolari, sembrava dotato di un radar in grado di intercettare anche il più piccolo dettaglio. 
Quando raccontava della visita in una moschea durante la preghiera era come se vedesse fiammeggiare lo spirito dell’Islam; se visitava il negozio di un rigattiere, le cose – ossia gioielli preziosi e cianfrusaglie – diventavano il pretesto per ordire qualche riflessione sulla fine di una civiltà ; entrando in un caffè era attratto da un cameriere solitario che ondeggiava come un pinguino. Capiva che l’accattonaggio, così diffuso in quelle terre, era anche un atto religioso. Con la rivoluzione bolscevica ancora fresca – tra le sperdute terre russe – finì per caso in un festival internazionale di poesia proletaria dove recitò, tra gli applausi di gente che non conosceva l’inglese, una filastrocca di William Blake. 
Si spostava in nave, in treno, a volte con una macchina messa a disposizione da qualche improbabile console, più spesso con gli animali: cavalli e dromedari che gli piagavano il didietro. Eppure, nonostante le fatiche dei lunghi viaggi, le tappe forzate, la durezza dei deserti, la morsa del freddo, il tormento delle pulci, il rischio dei predoni, Dos Passos avvertiva un senso di pienezza, di stordimento e di pace interiore che l’Occidente non aveva saputo dargli. «Preso come un’attrazione da luna park non è male questo Est bello e in via d’estinzione», scrisse. Era attratto da tutto ciò che sembrava indolente e precario. Tra quelle rovine, che pullulavano delle larve della storia, ritrovò qualcosa che non era solo antichità , ma una vera cancellazione del tempo. Lì, infatti, il tempo si era inesorabilmente consumato, per rinascere prepotente e volgare in Occidente.


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