Se la rivolta diventa etnica e religiosa

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La stessa difformità  si è registrata riguardo a una spaccatura che sarebbe avvenuta all’interno della prima divisione dell’esercito siriano, prontamente smentita dalla tv di stato. Così come resta un mistero il numero reale dei partecipanti alle proteste e quello dei siriani che, al contrario, prendono parte alle manifestazioni pro-Assad. Da settimane si va avanti così, senza avere la certezza di quanto accade sul terreno, a causa anche del divieto per la stampa estera di accedere al paese. 
A indurre alla cautela è anche il recente caso della «Ragazza gay a Damasco», Amina Arraf. Per settimane il suo blog, seguitissimo, ha passato news su quanto accade in Siria e descritto le difficoltà  di una giovane lesbica nel vivere sotto la dittatura di Assad. Gli attivisti per i diritti civili di tutto il mondo si sono mobilitati quando è giunta la notizia dell’arresto della blogger da parte di «agenti del regime». Peccato che fosse tutto falso, Amina non è mai esistita e il suo blog era gestito dalla Scozia, da Tom McMaster, uno studente americano. 
Tuttavia in questa nebbia sono visibili in modo abbastanza chiaro alcuni dati. Se la repressione delle proteste è stata sino ad oggi brutale e il presidente Bashar Assad ha risposto in modo troppo limitato alla giusta richiesta dei siriani di libertà  e diritti, è allo stesso modo incontestabile che la protesta continua a interessare centri rurali, villaggi e cittadine periferiche, vicine ai confini con Giordania, Libano e Turchia. A oltre tre mesi dall’inizio dei disordini a Deraa, Damasco e Aleppo, la capitale e la seconda città  del paese, rimangono sostanzialmente calme. Comincia a essere evidente che alla protesta iniziale contro i servizi di sicurezza e il partito Baath, si sia gradualmente sostituita una rivolta sunnita contro gli alawiti (la setta sciita alla quale appartiene Assad), da decenni al potere con il sostegno determinante delle altre minoranze (cristiani e drusi) e della classe media. 
Lontani dalla capitale, roccaforte del regime, le aree periferiche a stragrande maggioranza sunnita godono di una maggiore libertà  e hanno potuto sollevarsi con più facilità  contro il potere locale del partito Baath. A confermare indirettamente come la protesta siriana stia diventando rapidamente anche, se non soprattutto, uno scontro etnico e religioso, sono proprio le notizie di bandiere del movimento sciita Hezbollah e dell’Iran bruciate nelle piazze. Per i media occidentali sono il segno dell’insoddisfazione popolare per la politica estera di Assad. Con più probabilità  sono la ribellione dei militanti sunniti verso un’alleanza tra sciiti imposta a un paese che si considera sunnita.
È difficile valutare il peso del lavoro svolto dietro le quinte dai Fratelli Musulmani, nemici storici del Baath. Ma le proteste massicce registrate a Homs e Hama (storica roccaforte degli islamisti) indicano che non è più marginale. Quando si parla della «primavera araba» si fa quasi sempre riferimento al ruolo decisivo delle forze liberali e progressiste. Ma sei mesi dopo l’inizio delle rivolte in Tunisia ed Egitto, è ormai chiaro che i Fratelli Musulmani (sunniti) saranno protagonisti del futuro di questi due paesi. Protagonismo che non può non coinvolgere i Fratelli Musulmani siriani, molto popolari anche in Siria, messi davanti alla prospettiva della caduta del tanto odiato Baath e di riconsegnare il paese al sunnismo.


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