La beffa dei rimborsi così i partiti fantasma incassano 500 milioni

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ROMA – Di alcuni non è rimasto che il simbolo, assemblee di ex che vengono convocate di tanto in tanto e, forse, il ricordo di qualche elettore nostalgico. Altri, invece, hanno sedi, strutture, impiegati, ma da anni non hanno nessun rappresentante in parlamento. Eppure, i “partiti fantasma” continuano ad incassare soldi dallo Stato. L’ultima rata, relativa ai rimborsi per le elezioni regionali del 2007 in Molise, arriverà  prima della fine di quest’anno. E così, la cifra incamerata dai partiti che non ci sono più, toccherà  la vertiginosa quota di 500 milioni di euro. Spicciolo più, spicciolo meno. Per intendersi, è una somma pari allo stanziamento del governo per Roma capitale quella che è finita in questi anni nella pancia di sigle che si supponevano scomparse dalla scena della politica, come Forza Italia, Alleanza nazionale, Democratici di Sinistra, Margherita, oppure di partiti che gli elettori hanno cancellato dal parlamento e che sono stati smontati e rimontati da scissioni e nuove aggregazioni come Rifondazione comunista, i Verdi, perfino l’Udeur di Mastella o un partito personale come “Nuova Sicilia” il cui dominus è Bartolo Pellegrino – un ex deputato dell’assemblea regionale siciliana recentemente assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa – che fino allo scorso anno ha percepito circa centomila euro di rimborso elettorale.
Nulla, se confrontato a quanto ha potuto iscrivere nei propri bilanci il più ricco dei “partiti fantasma”, Forza Italia. Quella che fu la creatura di Silvio Berlusconi, nata nel 1994 e sacrificata nel 2007 per fare posto al Pdl, ha continuato ad incamerare i rimborsi elettorali fino ad arrivare, nel 2010, alla cifra monstre di 96 milioni di euro. Molto staccati, in questa classifica, i Democratici di sinistra che hanno potuto iscrivere in bilancio 74 milioni di euro e spiccioli. Soldi che – per ammissione del tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti – sono stati rapidamente pignorati dalle banche ed adoperati per chiudere la partita di debiti ereditata dal vecchio Pci. Alla Margherita, altro partito formalmente cancellato, invece, è andata meglio. I 42 milioni di euro di rimborsi incassati, ad onta della scomparsa dalla scena politica, sono tutti lì. E, anzi, intorno a quella eredità  si è accesa una disputa alla quale partecipano pure parlamentari che, nel frattempo, hanno preso altre direzioni, accasandosi in altri partiti o inaugurandone di nuovi. Ma come è stato possibile che partiti scomparsi dalla scena o bocciati dagli elettori abbiano continuato ad incassare soldi pubblici a titolo di rimborso elettorale? Quanto hanno pesato i rimborsi ai “partiti fantasma” sulle tasche dei cittadini? E, soprattutto, che fine hanno fatto quei soldi?

LA GRANDE ABBUFFATA
La chiave di tutto è nel comma di un articolo accuratamente nascosto nelle pieghe della legge mille proroghe che viene discussa e approvata in parlamento il 2 febbraio del 2006. In quella norma sta scritto che il rimborso elettorale (che la legge numero 157 del 1999 fissa in un euro per ogni cittadino iscritto nelle liste elettorali da dividere percentualmente in base ai voti ricevuti) spetta ai partiti anche in caso di chiusura anticipata della legislatura. Dunque, lo Stato continua a versare i soldi ai partiti per tutti e cinque gli anni, anche se il parlamento è stato sciolto. Adesso, la legge è stata corretta, ma le nuove regole varranno solo a partire dalle prossime elezioni. Comunque, una settimana dopo quel blitz del febbraio 2006, guarda caso, la legislatura si chiude. Si torna al voto. Vince l’Unione di Prodi per una manciata di preferenze e il leader del centrosinistra governa, sul filo di lana, per meno di due anni. Poi, cade e il Paese torna alle urne. Nel frattempo, però, nella politica italiana va in scena l’ennesima rivoluzione. Spariscono partiti (Forza Italia, An, i Ds, La Margherita), ne nascono di nuovi (il Pd e il Pdl) e, nelle urne, gli italiani polarizzano i loro consensi sulle formazioni maggiori lasciando fuori dalle aule parlamentari forze politiche come Rifondazione comunista, i Verdi, l’Udeur. Una semplificazione dalla quale dovrebbe derivare anche un risparmio in termini di rimborsi elettorali. Nulla di tutto ciò, dal momento che – grazie a quel comma approvato in fretta e furia nel febbraio del 2006 alla vigilia dello scioglimento delle Camere – i partiti che non esistono più continuano ad incassare i rimborsi elettorali. Non si tratta di bruscolini dal momento che il totale per il periodo 2006-2011 ammonta a 499,6 milioni di euro. Una somma che viene divisa tra i partiti che sono sopravvissuti alla rivoluzione e quelli che non esistono più o che non sono più rappresentati in parlamento. Come se non bastasse, a quella cifra vanno aggiunti i rimborsi che spettano per la legislatura in corso e quelli relativi alle regionali e alle europee del 2004, del 2005 e del 2006. L’anno d’oro, per i partiti italiani, è senza dubbio il 2008. In quella stagione – come accertato dalla Corte dei conti – nella casse della formazioni politiche, quelle in vita e quelle “defunte”, finiscono – nell’ordine – la terza rata del rimborso per le politiche del 2006 che vale 99,9 milioni di euro, la prima rata del rimborso per le politiche del 2008 che ammonta a 100,6 milioni di euro, i 41,6 milioni di euro della quarta rata del contributo dovuto per le regionali del 2005 e la quinta rata del rimborso per le europee del 2004 che vale 49,4 milioni di euro. In tutto, fanno 291,5 milioni di euro. Ce n’è abbastanza per dedurne – come fa l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi – che «la volontà  dei cittadini espressa attraverso il referendum che aboliva il finanziamento pubblico ai partiti è stata raggirata». Dice Parisi: «Siccome la legge prevede che il contributo assuma la forma di rimborso elettorale ciò obbliga l’amministratore del partito a non potervi rinunciare. Dal momento che, se vi rinunciasse, potrebbe essere denunciato per cattiva amministrazione. Ecco come è stato aggirato il referendum che vietava qualsiasi finanziamento ai partiti da parte dello Stato».

L’EREDITA’ CONTESA
Eppure, Arturo Parisi gode di un osservatorio privilegiato in tema di soldi versati dallo Stato ai “partiti fantasma”. L’ex ministro, infatti, fa parte dell’assemblea della Margherita partito confluito nel Pd ma che ha continuato ad incassare rimborsi elettorali. «Di solito le riunioni dell’assemblea per discutere i bilanci – ironizza Parisi – vengono convocate in orari come quello del matrimonio di Renzo e Lucia». L’ultima volta è successo lunedì e, alla fine, l’assemblea dei “superstiti” della Margherita non è riuscita a decidere nulla sul bilancio ed ha deciso di riaggiornarsi. Ovvio, dal momento che la Margherita, tra i “partiti fantasma”, è quello con le maggiori disponibilità . Quasi nessun debito pregresso, il personale ormai tutto trasferito nei ranghi del Pd. A parte le spese sostenute per tenere in vita il quotidiano Europa, i rimborsi elettorali incassati in questi anni sono in gran parte ancora lì. L’ultimo bilancio consultabile, quello del 2009, racconta di una disponibilità  liquida di 24 milioni e 636 mila euro. Ma, per ammissione del tesoriere Luigi Lusi, la somma rimasta in pancia al partito che dovrebbe chiudere i battenti è ancora superiore. Cosa farne di quei soldi? Lo decideranno gli organismi superstiti del partito che non c’è più. Il fatto è che dell’organismo chiamato a decidere sull’eredità  milionaria della Margherita, fanno parte anche parlamentari che, nel frattempo, si sono accasati altrove. Per esempio, a presiedere la Margherita è Francesco Rutelli, oggi leader dell’Api. E, di quella assemblea, fa parte anche Enzo Carra che oggi milita nell’Udc. Carra è uno che nella sua lunghissima carriera politica ne ha viste tante, eppure qualche settimana fa si è stupito nell’apprendere i farraginosi meccanismi studiati per decidere chi debba avere accesso all’assemblea della Margherita. Racconta Carra: «Ho incrociato un collega in Transantlantico e gli ho chiesto: “scusa ma perché io e Lusetti non siamo stati invitati alla assemblea della Margherita visto che facciamo parte dell’organismo?” Quello per tutta risposta mi ha detto: “vuoi decidere anche tu su come dividere il rimborso elettorale?”. Ora, a parte che ne ho il diritto ho appreso che saranno ammessi all’assemblea tutti quelli che militano in partiti che stanno all’opposizione dell’attuale maggioranza. Dunque, noi dovremmo esserci». In ogni caso, Carra, Lusetti e altri hanno allo studio un’azione legale. Evidentemente l’eredità  della Margherita fa gola a tanti. Anche a quelli che sono andati via.

MATRIMONIO DI INTERESSE
Che i “partiti fantasma” siano destinati ad aggirarsi ancora per un po’ sulla scena della politica italiana, lo si capisce leggendo la relazione al bilancio 2009 di Forza Italia firmata dal tesoriere Sandro Bondi. Scrive Bondi: «Il movimento (Forza Italia ndr) resterà  in attività  almeno fino a tutto il 2012 anche per consentire la presentazione dei propri rendiconti annuali, a norma di legge indispensabili per completare l’incasso dei residui rimborsi spese elettorali rimasti di propria diretta pertinenza e per permettere la percezione da parte dell’istituto di credito interessato dei crediti elettorali ad esso ceduti nel 2007, le cui erogazioni in caso diverso sarebbero sospese». In pratica, a partire dal 2006, Forza Italia ha incassato non solo i rimborsi elettorali riconosciuti per la legislatura che si è interrotta in anticipo, ma anche una quota di quelli spettanti al Pdl per il periodo 2008-2013. Dietro il matrimonio tra Forza Italia e An che ha portato alla nascita del Pdl, infatti, c’è un accordo da fare invidia ai patti da osservare in caso di divorzio sottoscritti da star del cinema e regnanti. In base a quel contratto il Pdl ha ceduto a una banca l’intero ammontare del rimborso elettorale che gli spetta per il periodo 2008-2013 (si tratta di circa 40 milioni di euro l’anno) facendosi liquidare in anticipo l’importo e dividendone il cinquanta per cento tra An e Forza Italia. Come dire, lo Stato paga il rimborso elettorale a un partito che ha partecipato alle elezioni, ma quei soldi vanno, in gran parte, a partiti che non esistono più. E che useranno quei soldi per prolungare la loro presenza da “fantasmi”. È il caso di Alleanza nazionale che, per gli elettori ha chiuso i battenti all’inizio del 2008, ma che ha ancora una sede, un comitato di gestione e, soprattutto, ha continuato ad incassare i soldi del rimborso elettorale. Al punto da chiudere il bilancio del 2009 con un attivo di 75 milioni di euro. Che fine faranno quei soldi? Serviranno a mettere in piedi la fondazione Alleanza nazionale che avrà  come obiettivo – si legge nella relazione al bilancio – quello di «determinare l’affermazione, la diffusione e la comunicazione dei modelli sociali, culturali e politici legati alla sua tradizione». Il tutto anche grazie al denaro pubblico che doveva servire solo a coprire le spese elettorali sostenute nel 2006. Ma, intorno al fiume di denaro che inonda le casse dei partiti, si addensano altri interrogativi. Come viene determinato l’ammontare dei rimborsi? E quanto spendono davvero i partiti per le campagne elettorali?

IL PASSO D’ADDIO
Ecco, appunto. Le spese elettorali e la loro copertura. A guardare bene, i soldi che i partiti hanno ricevuto a titolo di rimborso sono molti di più di quelli che hanno tirato fuori per stampare manifesti e volantini o per organizzare comizi. La Corte dei conti è andata a spulciare tra le fatture e ha scoperto, per esempio, che per le politiche del 2008 la Lega Nord ha dichiarato spese elettorali per 2 milioni e 940 mila euro e ha incassato, come rimborsi, la bellezza di 41 milioni e 385 mila euro. Tanto per spostarsi sull’altro fronte dello schieramento, Rifondazione comunista per le elezioni del 2006 ha dichiarato spese per un milione e 636 mila euro. Sapete quanto ha avuto di rimborso? Sei milioni e 987 mila euro. Che tra l’altro sono stati versati nelle casse del partito fino allo scorso anno nonostante in parlamento non sedesse più da anni neppure un rappresentante del partito. Adesso, però, il rubinetto dei rimborsi per la legislatura finita in anticipo si è chiuso. E per Rifondazione, si annunciano tempi davvero duri. Nella relazione al bilancio, il tesoriere lo dice senza mezzi termini: «Rischiamo di chiudere bottega».

 


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