Una rete globale come l’azienda

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Non sarà  l’internazionale operaia, ma un primo passo per contrastare le divisioni tra lavoratori con lo stesso padrone, ma «basati» in paesi o continenti diversi, è stato compiuto. 

A Torino, non per caso, si sono riuniti per due giorni i vertici dei sindacato che hanno una presenza negli stabilimenti Fiat e Chrysler in giro per il mondo. Sigle molto diverse per impostazione politica e contrattuale, ma unite dalla necessità  di non presentarsi più come soggetti «singoli e solitari» davanti all’azienda. Più precisamente, è scritto nel documento finale, «per evitare che i lavoratori vengano messi gli uni contro gli altri la cooperazione internazionale dei rappresentanti dei lavoratori e dei sindacati è assolutamente necessaria, ancor più in un momento di crisi in cui ci sono rischi di chiusura di impianti e di perdita di posti di lavoro».
Non era la prima volta che ci si provava, ma al terzo tentativo la «rete globale» – tra siti produttivi, sindacati, ecc – è stata formalizzata. Servirà  a condividere e far circolare informazioni, a partire dalle esperienze che si vanno facendo con il World Manifacturing Class (Wcm), il tipo di organizzazione della prestazione che punta apertamente a «saturare» il tempo di lavoro del singolo operaio, fino a incrinarne il fisico. Ma il «segretariato mondiale» servirà  anche ad organizzare «azioni di sostegno reciproco». Il gruppo di coordinatori sta già  preparando una lettera per Sergio Marchionne, in cui si presenta come interlocutore e «gruppo di contatto» con cui l’azienda per ragionare sui problemi globali del gruppo.
Protagonisti assoluti saranno Maurizio Landini per la Fiom (immaginiamo che l’a.d. della Fiat ne sarà  felice, dopo gli sforzi che ha fatto per cercare di espellere la sua organizzazione dai tavoli negoziali), Bob King per l’americana United Automotive Workers (Uaw) e un brasiliano di cui al momento non si conosce il nome. Presenti anche Bruno Vitali per la Fim Cisl ed Eros Panicali per la Uilm, che da un anno a questa parte sono tra i «complici» più infaticabili della Fiat (e del governo). Ma «quando si va a livello internazionale – spiega Enzo Masini, coordinatore nazionale della Fiom per il settore auto – anche loro mantengono un altro atteggiamento; non è che si può andare a dire ‘tutto quello che fa Fiat va bene’, come avviene in Italia».
Presenze ed assenze hanno un rilievo e richiedono qualche spiegazione. Non erano presenti i brasiliani perché nei vari stabilimenti Fiat di quel paese è presente in genere la Cut; a Betim (considerato fino a qualche anno fa la fabbrica di automobili più grande del mondo, da cui usciva «una macchina ogni 45 secondi», nello stato del Minas Gerais), c’è invece un’altra organizzazione, «ancora più di sinistra». Dovranno decidere tra loro chi è il rappresentante del proprio paese nella «rete». Mancavano anche turchi, argentini e messicani. Mentre erano presenti tutti i paesi europei maggiori (Spagna, Francia, Germania e soprattutto Polonia). Anche negli Stati uniti i problemi non mancano: di undici stabilimenti solo quattro sono sindacalizzati (nel sistema Usa, una fabbrica ha la presenza del sindacato solo se la maggioranza dei dipendenti lo accetta con votazione), tre dalla Uaw e uno dalla Industrial Machinists of America, tecnicamente parte del settore aereo). Manca insomma sia il sindacato che il contratto, almeno aziendale, in tutti gli stabilimenti della Cnh.
Decisioni operative a parte, i metalmeccanici Fiom erano soddisfatti soprattutto del contenuto della discussione che le ha precedute. «È stata una riunione proficua, il cui risultato non era affatto scontato». «Non c’è stato solo un confronto di buone intenzioni – ha aggiunto – ma sono stati compiuti alcuni passi significativi, come l’impegno assunto affinché il management dell’azienda riconosca un accordo quadro internazionale che dia la possibilità  di richiamare i paesi in cui si dovesse verificare la violazione dei diritti minimi».
C’è ovviamente una percezione diversa della gestione Fiat tra europei e statunitensi – dice Masini – Loro la vedono ancora in ripartenza, e la ristrutturazione più pesante l’avevano subita ancora prima dell’arrivo di Marchionne e le condizioni più dure sono state imposte dal governo Usa. Ancora ‘non sentono’ la sua mano, non ne conoscono la faccia gerarchica e ‘decisionista’. Ovviamente li abbiamo avvertiti che non saranno rose e fiori, che il segno di questa azienda è molto autoritario».
Tra gli europei, invece, non c’è stata necessità  di tante spiegazioni. A Tichy come a Melfi o in altri stabilimenti si fanno i conti con relazioni sindacali molto difficili, ma soprattutto con condizioni di lavoro sempre meno sopportabili. «Sono tutti molto incazzati», è la sintesi di un toscano doc, tra l’ironico e il serio.


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