Se la finanza ci rende folli

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John Galbraith aveva appena pubblicato il suo libro sulla crisi del 1929. Si chiamava Il grande crollo. Gli capitò, nella libreria dell’aeroporto, di chiedere quante copie ne avessero vendute. Nessuna. Riflettendo, capì che quello era l’ultimo posto dove qualcuno avrebbe comprato un libro con quel titolo.
Il libro di Galbraith descrive la più grande crisi del capitalismo mettendone in luce, oltre agli aspetti economici, quelli più propriamente speculativi: la sua caratteristica di grande fenomeno contagioso più tipico della psicologia di massa che dell’economia. Galbraith la chiama “euforia”. Le grandi crisi finanziarie della storia del capitalismo hanno tre tratti in comune: l’emergenza di un “attrattore”. lo svolgimento di un processo cumulativo, l’inevitabile tracollo, È un processo drammatico, di cui ci restano in mente scene peculiari: come quella dei due “risparmiatori” rovinati dal reciproco contagio che si gettano dal ponte di Brooklyn tenendosi per mano. O come quella del finanziere che entra in albergo per chiedere una stanza e si sente chiedere: per dormire o per buttarsi dalla finestra?
L’attrattore può essere qualunque cosa. Nella prima grande euforia della storia del capitalismo fu un fiore, cangiante e sgargiante: il tulipano. Ne fu investita la razionalissima Olanda, nel Seicento, con una ventata di improvvisa follìa.
Seguì in Francia una follìa più complessa, alla cui origine stava un mago scozzese, John Law, affascinante giovanotto adorato dalle donne, coinvolto in avventure e duelli uno dei quali fu causa della sua condanna a morte e fuga dal Regno. Era anche un matematico provetto, che applicò la sua scienza della probabilità  al gioco d’azzardo, vincendo sempre, ma anche all’invenzione di una delle più grandi rivoluzioni dell’economia moderna: la cartamoneta. Il suo pazzesco progetto fu accolto dal compagno di bagordi, il Reggente di Francia, Filippo di Orléans. Consisteva di due colpi magistrali: primo, la creazione di una Banca autorizzata ad emettere biglietti convertibili in oro prestandoli allo Stato che pagava con quelli i suoi debiti. Tutto dipendeva dalla fiducia in quella conversione, che si chiamava credito, dalla parola credere. Per alimentare quella fiducia il Reggente spediva vistosamente alla Banca carri d’oro di giorno, che venivano occultamente restituiti di notte. Il secondo colpo fu l’invenzione dell’oro della Louisiana, colonia americana che ne era del tutto priva e la costituzione di una Compagnia che emetteva titoli rappresentativi di quella ricchezza. I titoli andarono a ruba: il ricavato finanziava la Banca che emetteva moneta con la quale si acquistavano i titoli. E via emettendo. Ecco una forma perfetta di contagio. Naturalmente quel processo cumulativo finì con un tracollo.
La storia di Law in discesa è altrettanto rapida di quella in salita, solo molto più triste e meno colorata. Dopo essere diventato cattolico e Controllore Generale del Regno di Francia, dovette subire la caduta delle azioni della Compagnia, la distruzione dei biglietti, l’abbandono del Reggente, la sparizione degli amici, le sassate della plebaglia arricchita e impoverita di colpo, l’ennesima fuga della sua vita, ramingo in Europa con la sua fedele e coraggiosa compagna Catherine. Dopo essersi dedicato a molte altre attività  – anche la spia internazionale per il re d’Inghilterra, in cambio del tanto sospirato perdono, – approdò infine alla sua amata Venezia, che pure lo amava, e dove passava le giornate al caffè Florian, manco a dirlo, a giocare. Vincendo, quasi sempre. Vi morì il 21 marzo del 1729, a soli cinquantotto anni


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