Da un cane da guardia all’altro

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Le premesse non sono rassicuranti: il 5 aprile scorso la Tunisia ha sottoscritto con l’Italia un accordo di cooperazione per il contrasto dell’immigrazione «clandestina», che sta producendo i suoi frutti, se è vero che recentemente il «nostro» ministro dell’Interno si è felicitato per l’ottima collaborazione fra i due paesi. In effetti, dopo una prima fase di sbandamento post-rivoluzione, ora le autorità  tunisine, fedeli all’accordo, reprimono i tentativi di partenza verso l’Europa. L’Italia ha anche consegnato alla Tunisia navi e strumenti per il pattugliamento, il controllo e il respingimento dei migranti. 
In tal modo e in una certa misura, la rivoluzione del 14 gennaio è già  stata tradita dal governo di transizione, se è vero che la libertà  per la quale i giovani tunisini hanno lottato, pagando l’insurrezione con un pesante tributo di sangue, è intesa anche come libertà  di movimento. È improbabile che coloro che la hanno già  sperimentata virtualmente attraverso il web e la comunicazione su scala planetaria siano disposti a farsi confinare di nuovo entro i recinti nazionali. È dubbio che l’accordo fermi i giovani proletari delle regioni più povere. Nonostante le baggianate che si scrivono, sono gli stessi che hanno innescato e guidato la rivoluzione. Ma ora l’urgenza di cercare il pane per sé e per i familiari li spinge ad abbandonare per il momento un paese ancor più afflitto dalla disoccupazione, soprattutto a causa del crollo del turismo e del suo vasto indotto informale.
Quanto al Comitato nazionale di transizione libico di Bengasi, la sua posizione fa cadere le braccia anche a chi, compresa chi scrive, all’inizio aveva simpatizzato per quell’insorgenza, auspicando che finalmente avesse ragione di Gheddafi, feroce cane da guardia delle frontiere europee. Il più feroce, per meglio dire: la persecuzione di migranti e rifugiati, gli arresti arbitrari, le deportazioni, i taglieggiamenti, le torture, gli stupri – atrocità  di cui l’inferno della prigione di Cufra era l’apoteosi – avevano come corollario lo sfruttamento della manodopera straniera, fino alla riduzione in schiavitù, e di conseguenza una xenofobia popolare diffusa. Non si può certo pretendere di rappresentare la rottura radicale con il regime gheddafiano e le sue nefandezze senza spezzarne i cardini portanti: fra questi, gli accordi bilaterali di riammissione di migranti e potenziali richiedenti asilo.
Insomma, dopo l’intesa contro l’immigrazione «clandestina», sottoscritta alcuni giorni fa a Napoli tra Frattini, per il Governo italiano, e Mahmud Jibril, per il Comitato di transizione di Bengasi, è arduo continuare a chiamare rivoluzionari i rivoltosi libici o almeno i loro rappresentanti. Paradossale e derisorio è che l’accordo sia stata siglato in occasione di una tavola rotonda su «La Primavera araba: come reagire?». Tragicamente paradossale è che i rifugiati possano essere bloccati con la forza in un paese lacerato dalla guerra civile, bombardato dalla Nato, tormentato dall’escalation di «danni collaterali». Crudele e contrario a ogni diritto internazionale è che verso quello stesso paese in guerra – e che non ha mai ratificato la convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati- possano essere respinti qualora siano riusciti a fuggirne avventurosamente.
Con un tale accordo – illegittimo perché non sottoposto alle Camere, assurdo perché prevede che si possano «rimpatriare» nella Cirenaica amministrata dal Comitato di transizione coloro che sono fuggiti dalla Tripolitania amministrata da Gheddafi – in un colpo solo si violano il diritto d’asilo garantito dalla Costituzione e le norme comunitarie e internazionali che tutelano i diritti umani fondamentali. La Giornata Mondiale del Rifugiato non poteva essere celebrata peggio.


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