La trappola della semplicità
A parte la diffusa voglia di aiutare nella discesa il berlusconismo in declino, la maggior parte degli italiani infatti aveva e ha paura di una catastrofe nucleare «dentro casa» ; aveva e ha la convinzione quasi teologica che l’acqua è dono divino e bene di tutti; aveva e ha la rabbiosa volontà di negare ai politici la possibilità di scapolare i processi. L’onda dell’opinione è andata quindi avanti senza incontrare resistenza; e la dimensione quasi totalitaria di «sì» sta a dimostrare che non c’è stata dialettica di pensieri, ma solo globale e unidirezionale vento d’opinione. Non sembri paradossale, ma nel risultato ci vedo ancora tanto berlusconismo, i segni di una cultura politica cioè che cavalca l’andamento dell’opinione pubblica ma non sa affrontare i complessi problemi sistemici del Paese, quelli che non possono essere affrontati sulla base dei sondaggi (campionari o totalitari) e dei contatti e messaggi telematici. E siamo verosimilmente destinati a non andare oltre il berlusconismo se non rimettiamo all’onor del mondo un approccio di tipo sistemico. Si dirà che si tratta di un approccio vecchio, visto che è quello che ha dominato i primi decenni del dopoguerra (basta pensare alla programmazione, alla Cassa per il Mezzogiorno, alle partecipazioni statali, all’idea cioè dello Stato «soggetto generale dello sviluppo» ) e che è andato in crisi negli anni 80 per l’affermarsi di una cultura dello sviluppo fatto al contrario di tanti soggetti, di primato delle strategie d’impresa, di ampia soggettività individuale, di forte condizionamento dei flussi e delle fonti di comunicazione. Una cultura che il berlusconismo ha cavalcato per venti anni e che oggi viene messa in minoranza, lasciando intravedere la possibilità che sui grandi temi del Paese, quelli dove si impone la dimensione sistemica possa tornare in auge la responsabilità anche operativa del potere pubblico. Nella triade «venti di opinione-approccio sistemico responsabilità politica» proprio il termine di mezzo, quello più importante e decisivo, sembra essere sacrificato, con un pericoloso tradimento dei problemi da risolvere. Basterebbe infatti esaminare i campi di nostra maggiore fragilità per capire che essi hanno bisogno di azioni di sistema, definite seriamente e non condizionate dai venti dell’opinione come dalle ipoteche politiche.
Vale per il mondo molto articolato della captazione e della distribuzione dell’acqua; vale per il mondo tutto da «risistemare» dell’Università e della ricerca scientifica (nell’eccessivo numero di sedi e di corsi di laurea come nei legami internazionali); vale per il mondo delle infrastrutture, totalmente sistemico (nell’alta velocità come nella mobilità dei pendolari); vale per il welfare dove non bisogna perdersi in interventi minuti e produttori di consenso ma programmare con cura la difficile copertura dei bisogni e del relativo impegno finanziario. Potrei continuare negli esempi, ma basterà al lettore ripercorrere i quattro sopra avanzati per capire che in nessun campo del nostro sviluppo si può pensare di far politica a botte di referendum, sondaggi, comunicazioni web. Occorre riprenderci cultura e approccio di sistema. E non è nostalgia della classe dirigente con cui ho cominciato a lavorare (l’economia è un sistema, la società è un sistema, dicevano Saraceno, Sebregondi, Paronetto) ma è la convinzione che lo sviluppo vive di cicli altalenanti, per cui dopo la libertà molecolare può tornare la serietà sistemica.
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